Nei giorni scorsi si è parlato parecchio del probabile aumento dell’IVA che coinvolgerà gli italiani a partire da ottobre 2012. Il governo, in seguito al sisma emiliano, ci ha fatto capire che difficilmente sarà possibile non aumentare l’aliquota standard dell’IVA, che così passerà dal 21 al 23%. Una nuova richiesta di sacrificio ai cittadini, che in questo modo vedranno ulteriormente diminuire la capacità di acquisto e di consumo.
L’unica cosa che può farci stare “tranquilli” è che in diversi Paesi, all’interno dell’UE, le aliquote della tassazione sui consumi sono più alte delle nostre o comunque sono state innalzate negli ultimi anni. Partendo dai casi più virtuosi (Danimarca e Germania), siamo andati ad analizzare il trend delle aliquote IVA dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna).
Dal grafico si può immediatamente notare come la Germania abbia deciso di aumentare l’IVA nel 2006 passando dal 16% al 19%: la politica, in questo caso, ha previsto con largo anticipo ciò che sarebbe avvenuto circa quattro anni dopo. Infatti, tra il 2009 e il 2010, Spagna, Grecia e Portogallo hanno alzato le rispettive aliquote per risanare le casse pubbliche che iniziavano a essere provate dalla crisi dei debiti sovrani. Nel 2011 anche Irlanda e Italia hanno dovuto ritoccare l’imposta sul valore aggiunto, e nel 2012 è probabile, come detto, che l’IVA sarà aumentata ulteriormente.
Paradossale il caso della Danimarca: al di fuori dell’Eurozona, ha sempre tenuto l’IVA molto alta (25%). Secondo lo schema scandinavo, però, a tasse e imposte alte corrispondono servizi ottimi e un welfare invidiabile: la Svezia (25%) e la Finlandia (23%) non fanno eccezione a questo modello.
I PIIGS stanno arrivando a un livello generale di tassazione paragonabile a quella dei Paesi scandinavi senza però offrire i medesimi servizi. Questo è un dato su cui riflettere, perché indirettamente ci porta a quel discorso sulla revisione della spesa pubblica intrapresa dal ministro Giarda e attualmente in fase d’implementazione dal Commissario Bondi. Come spiegato dal IX Rapporto NENS sulla finanza pubblica, uscito pochi giorni fa, il biennio 2010-2011 ha evidenziato come il consolidamento dei conti pubblici non è dipeso in alcun modo dall’aumento della pressione fiscale o da un incremento delle entrate, bensì da una forte contrazione della spesa primaria (1,3% nel 2010; 1,0% nel 2011). Attualmente, la spesa primaria si attesta sul 45,6% del PIL dopo che nel 2009 aveva toccato addirittura il 48%. Andando a scorporare le voci specifiche della spesa corrente primaria, possiamo notare dal come la riduzione della spesa si sia affrontata riducendo i redditi da lavoro dipendente e i consumi intermedi, oltre che le spese in conto capitale.
Come l’evidenza empirica ci dimostra anche in questo caso, l’unica vera soluzione per l’Italia è quella di predisporre un piano serio e duraturo che permetta di ridurre la spesa corrente in maniera cospicua. Un piano che non si areni nei palazzi di Governo, tra i meandri della burocrazia italiana.
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