Il Pd lo ha già ribattezzato “Italicum 2.0“: è la nuova versione di riforma della legge elettorale su cui si è raggiunto l’accordo (per ora solo parziale) tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi in occasione del loro ultimo incontro, mercoledì 12 novembre.
Vecchio e nuovo Italicum a confronto
Il precedente accordo, risalente ormai a gennaio, prevedeva una legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza e soglie di sbarramento; due le differenze principali con il Porcellum, che era stato appena dichiarato incostituzionale: la previsione di una soglia minima (il 37% dei voti) che la coalizione vincente doveva raggiungere per vincere il premio di maggioranza; se nessuna coalizione avesse raggiunto questa percentuale, era previsto un ballottaggio tra le prime due coalizioni più votate, e alla vincente sarebbe andato il 52% dei seggi della Camera, ossia 321 su 630; le soglie di sbarramento per ottenere seggi sarebbero state notevolmente innalzate, rispettivamente all’8% per le liste singole e il 4,5% per quelle coalizzate; infine, era previsto un sistema di liste bloccate corte, senza preferenze.
Il nuovo accordo introduce delle differenze fondamentali: l’Italicum 2.0 infatti prevede che la soglia minima per vincere il premio di maggioranza al primo turno venga innalzata al 40%, e che non vada ad una coalizione, bensì alla singola lista più votata; si tratta di una modifica fortemente voluta da Renzi (e proposta a suo tempo anche dal Movimento 5 stelle), e infine accettata anche da Berlusconi, nonostante i malumori dentro Forza Italia; la seconda modifica riguarda le soglie di sbarramento, non più differenziate tra partiti coalizzati e non (essendo sparita la ragion d’essere delle coalizioni), e fissate tra il 3 e il 5% per tutte le liste; infine, torna il voto di preferenza: sarà “bloccato” solo il capolista, mentre gli ulteriori candidati eletti saranno scelti sulla base delle preferenze raccolte.
La questione del Senato
L’Italicum 2.0, così come il precedente accordo, non prevede una nuova legislazione per il Senato: questo perché è in cantiere, su impulso di quello stesso “patto del Nazareno” alla base dell’Italicum, una riforma costituzionale che punta ad abolire il bicameralismo paritario, e in particolare il rapporto fiduciario tra il Senato e il Governo. Se quindi si andasse ad elezioni prima dell’approvazione definitiva della riforma costituzionale – che necessita di tempi piuttosto lunghi – il Senato dovrà essere eletto con le attuali regole, ossia con un proporzionale con liste bloccate e soglie di sbarramento variabili.
Simulazione – Camera dei Deputati
Proviamo a simulare gli effetti del “nuovo” Italicum sulla base dei risultati delle ultime elezioni europee (che non si discostano molto da quelli rilevati dagli attuali sondaggi). In questo caso, il Pd otterrebbe il premio di maggioranza di 340 seggi al primo turno, avendo superato il 40%; gli altri 277 seggi (qui sono esclusi i seggi esteri e quello della Val d’Aosta) sarebbero ripartiti tra 6 liste (in caso di soglia al 3%) oppure tra sole 3 liste (in caso di soglia al 5%). Con i due grafici seguenti vediamo entrambi gli scenari.
Come si vede, in entrambi i casi al partito vincente (il Pd) va una maggioranza piuttosto ampia; la composizione della Camera è però molto differente per quanto riguarda la varietà e la consistenza numerica dei partiti di opposizione. È chiaro che ai partiti maggiori conviene comunque una soglia di sbarramento più alta possibile per massimizzare il numero dei propri seggi anche in caso di sconfitta.
Simulazione – Senato
Per quanto riguarda il Senato, i diversi scenari sono dovuti alla possibilità che si formino (o meno) delle coalizioni; infatti, con l’attuale sistema elettorale le coalizioni sono ancora possibili, ed hanno l’effetto di abbassare la soglia di sbarramento dall’8 al 3% per le liste che ne fanno parte. Gli equilibri a Palazzo Madama saranno ancora decisivi se si andasse alle urne prima dell’entrata in vigore della riforma costituzionale Renzi-Boschi; e qui tutto dipende dalla strategia di Forza Italia: se prevarrà la consapevolezza di non poter competere con il Pd renziano, è probabile che il partito di Berlusconi scelga di andare da solo, condannando gli altri partiti del centrodestra – ad eccezione della Lega – per massimizzare i propri seggi; altrimenti, i berlusconiani avranno maggiore interesse ad avere più alleati possibili, in modo da diminuire il numero di seggi spettanti al Pd, che così non potrebbe ottenere da solo la maggioranza assoluta anche al Senato. Vediamo quindi le simulazioni di questi due scenari, il primo con tutti i partiti da soli, il secondo con una coalizione di centrodestra comprendente FI, Lega, NCD-UDC e Fratelli d’Italia.
Qui la situazione è molto più in bilico rispetto a quanto visto per la Camera; infatti, con una soglia all’8% valida per tutti il Pd riesce ad ottenere una maggioranza molto risicata (159 senatori su 309 eletti, senza contare i senatori a vita e quelli eletti all’estero; una situazione simile a quella di Romano Prodi nel 2006) e solo allargando la maggioranza alla SVP, con cui i democratici hanno una partnership quasi ventennale in Trentino-Alto Adige; se invece il centrodestra si presenta in coalizione, i suoi partiti minori riescono ad ottenere seggi in molte regioni grazie alla soglia “facilitata” al 3%, togliendone quindi al Pd, che si ferma a 142 seggi. In questo caso, quindi, a Renzi non basterebbe una vittoria schiacciante come quella ottenuta alle Europee 2014. Morale: se si va alle elezioni prima di aver riformato la costituzione abolendo – almeno – il bicameralismo paritario, il prossimo governo sarà nuovamente frutto di un accordo post-elettorale tra Pd e partiti che si saranno presentati alle elezioni come suoi avversari.
E le preferenze?
L’ultima novità riguarda la reintroduzione delle preferenze: al posto delle liste (corte) bloccate previste dalla prima versione dell’Italicum, si introduce la possibilità per gli elettori di scegliere col voto di preferenza i candidati, con l’eccezione dei capilista. Il motivo di questo “compromesso” è semplice: bisognava trovare una mediazione tra le istanze di Pd e NCD (che volevano reintrodurre un meccanismo di scelta del parlamentare) e quelle di Forza Italia (contraria alle preferenze). Con questo compromesso, nelle 100 circoscrizioni in cui sarà diviso il territorio nazionale, gli elettori troveranno sulla scheda circa 6 nomi per ciascuna lista; se in una circoscrizione un partito eleggerà un solo candidato, questo sarà il capolista; se saranno due o più, gli ulteriori candidati eletti saranno scelti sulla base delle preferenze ottenute.
Quanti deputati saranno quindi eletti con il voto di preferenza? Intanto va premesso che il Senato, se verrà eletto ancora una volta con la legge vigente, dovrà prevedere dei meccanismi di scelta da parte degli elettori, come richiesto espressamente dalla Corte costituzionale. Per quanto riguarda la Camera, si può stimare un calcolo basato su una stima minima (come fanno D’Alimonte e Ghisleri intervistati dal Huffington Post) che ci dice che almeno 240 deputati saranno scelti dal voto di preferenza: tutti (o quasi) appartenenti alla lista vincente, che ottenendo 340 seggi eleggerà automaticamente i 100 capilista più, appunto, 240 scelti dai cittadini. Ma col voto di preferenza potranno essere eletti anche dei candidati nelle liste minori: come la prima versione, anche il nuovo Italicum 2.0 infatti consente le candidature plurime, cioè in più di una circoscrizione, fino a un massimo di dieci; in questo modo, è facile pensare che i partiti minori (ma non solo) sceglieranno di schierare in più circoscrizioni i loro volti più noti come capolista; ma alla fine, se risulteranno eletti, dovranno optare per una sola di queste, e ciò farà “scattare” l’elezione per i secondi arrivati, ossia quelli che avranno ottenuto più preferenze. Portando all’estremo questo ragionamento, quindi, è anche possibile che circa la metà dei deputati siano scelti con le preferenze.
Ma chi eleggerà più candidati con le preferenze e chi con le liste bloccate? Certamente possiamo assumere che la lista vincente vedrà meno della metà dei suoi eletti provenire da posizioni di capolista, e ciò vuol dire che la gran parte di essi verrà eletta grazie alle preferenze, dando ai parlamentari un certo grado di “indipendenza” dai vertici del partito che si tradurrebbe in un maggior controllo sul governo da parte della sua stessa maggioranza (il che, viste le degenerazioni viste col Porcellum, non è affatto una cosa negativa). Ma anche quei partiti che andranno all’opposizione ed eleggeranno più di un candidato in varie circoscrizioni avranno una quota importante di eletti attraverso le preferenze; si pensi alla Lega Nord, che probabilmente non vincerà le elezioni da sola, ma si ritroverà quasi certamente ad avere, come storicamente avviene, una concentrazione di voti nelle circoscrizioni del nord Italia. Questo, unito al fattore delle pluricandidature già illustrato, ci fa pensare che il partito di Salvini si candidi a essere quello con la maggiore rappresentanza parlamentare “direttamente eletta” dai cittadini – con l’eccezione del partito di maggioranza.
1 commento