“Hillary Clinton, più importante frontrunner a competere per la nomination democratica di sempre”. Così titolava un articolo del Washington Post nel lontano gennaio 2014, quando mancavano più di due anni alle elezioni. “Ben Carson sorpassa Trump e diventa il leader tra i repubblicani” recitava un più recente articolo della testata giornalistica Huffington Post.
La copertura mediatica delle elezioni americane è sempre più dipendente dal cosiddetto polling o sistema dei sondaggi. Questi sondaggi però creano nei lettori l’illusione di un pubblico interessato, con una chiara preferenza riguardo ai candidati in corsa per le elezioni già molti mesi prima del momento del voto. In realtà molti elettori prestano scarsa o poca attenzione alle elezioni, e le rilevazioni demoscopiche spesso non riflettono accuratamente le preferenze finali dei votanti.
Gli Stati Uniti d’America, con il loro sistema presidenziale, presentano un’importante peculiarità: a meno di eventi speciali, chi viene eletto per un determinato ufficio rimane in carica fino a fine mandato. Ne consegue che le elezioni si tengono ad intervalli regolari, di durata variabile a seconda degli organi che rinnovano i propri componenti (ogni due anni i deputati al Congresso; ogni sei anni i senatori; ogni quattro anni il Presidente; e così via).
Con la diffusione sempre più capillare dei canali d’informazione h24, analisi e sondaggi sono diventati un modo come un altro per ‘riempire’ i tempi morti tra i vari tipi di notizie. Negli States la quasi totalità dei media è privata, ed il loro scopo principale è fare profitti mediante l’audience. Per questo motivo è importante offrire al pubblico un servizio continuo ad ogni ora del giorno e della notte, ed avere sempre qualche cosa da dire. Come si può immaginare, questi due fattori combinati creano un clima di campagna permanente, ed i media iniziano a sondare il terreno per futuri candidati sin dal giorno dopo di un’elezione.
I cosiddetti early polls (“sondaggi anticipati”) sono appunto sondaggi commissionati da testate giornalistiche o media televisivi per rilevare tendenze anche molti mesi prima delle elezioni, e creare così storie da vendere al pubblico. Gli studiosi però negli anni sono diventati sempre più scettici riguardo questo tipo di non-informazione, e recentemente due delle più importanti agenzie demoscopiche americane (Gallup e Pew) hanno rinunciato a condurre ricerche sociali riguardo alle elezioni presidenziali del prossimo autunno. Diversi studiosi di fama internazionale (Gallup, Asher e Moore per citarne alcuni) hanno indagato per anni il valore relativo degli early polls. Nonostante i sondaggi effettuati quando manca molto tempo alle elezioni siano fuorvianti e spesso male interpretati, questo non significa che siano privi di informazioni interessanti per chi sa cosa cercare.
Tutte le indagini sociali mostrano che generalmente il pubblico è poco interessato alla politica. Gli americani iniziano ad informarsi seriamente solo a poche settimane dalle elezioni, ed in ogni caso i turnouts (l’affluenza) per le elezioni generali si aggirano intorno al 50%, mentre per le primarie vota in media poco più di un americano su quattro. Partendo dal presupposto che non esiste una chiara definizione di early poll, non è chiaro nemmeno quando un sondaggio è da considerarsi early (e quindi scarsamente rappresentativo poiché traccia le preferenze di un pubblico poco informato) o da considerarsi invece ‘credibile’ perché abbastanza vicino alle elezioni.
La questione però non riguarda tanto l’idea di sondaggio elettorale in sé, quanto la metodologia con cui questi sondaggi vengono condotti. Infine una grande importanza sul piano della qualità e data dall’interpretazione dei risultati, che non sempre è impeccabile. Gli esempi seguenti dimostrano come alcune previsioni a diverso tempo dalla data delle elezioni siano decisamente errate. Come si intuisce chiaramente nella Figura 1 è chiaro come al 22 Dicembre dell’anno precedente alle elezioni prese in considerazione (2004, 2008, 2012), i frontrunner, che appunto sono tali perché vincenti nei sondaggi, finiscano poi per perdere le elezioni nei confronti dei loro competitor. Tutti i casi menzionati, (Dean 2004, Clinton e Giuliani 2008 e Gingrich 2012) perderanno la nomination sulla distanza.
Un’altra interessante analisi, portata a terimine dal sondaggista Nate Silver su FiveThirtyEight, è decisamente più scettica riguardo agli early polls ad un anno dalle elezioni. L’analista considera le elezioni generali degli ultimi 50 anni, e traccia un dettagliato resoconto dell’errore, particolare ed assoluto, della media dei sondaggi a 12 mesi per singola elezione. Come mostrato nella Figura 2 quasi il 20% dei casi presi in considerazione presenta un errore assoluto (differenza tra il valore misurato ed il valore reale al giorno delle elezioni) superiore al 25%. Questo significa che se il candidato X era dato al 50% delle preferenze, è risultato avere il 25% in più o meno dei voti. La media dell’errore assoluto di tutti i casi si attesta intorno ad un 10%, stando a significare che i risultati sono sempre da prendere con le proverbiali molle.
Sempre dalla Figura 2, però, emerge che diversi sondaggi, anche ad una discreta distanza dalle elezioni, riescono a rilevare delle intenzioni di voto poi effettivamente concretizzatesi (come negli anni 1948, 1960 e 2012). Cosa rende quindi alcuni sondaggi credibili, ed altri invece semplice spazzatura? I motivi sono molteplici.
A differenza che in Italia, negli USA le più grandi compagnie mediatiche, principalmente per contenere i costi, hanno iniziato a creare team ed uffici adibiti alla conduzione di sondaggi, interni ai media stessi. Fox News, Cnn ed altre grandi compagnie però sono private e quindi seguono una logica di profitto. Considerando che ogni domanda aggiuntiva nel sondaggio ha un costo importante (creazione/implementazione/raccolta e analisi dati), queste società tendono a chiedere il minor numero di informazioni possibile, così da avere il maggior guadagno relativo. Tra le domande di rito, la domanda standard per la misurazione delle attitudini circa le intenzioni di voto è: “Se le elezioni si tenessero oggi, per quale candidato voterebbe?“.
Il vero problema sta nella mancanza di una misurazione d’intensità. Diversi studi (fra i quali uno condotto dall’autore di questo articolo sulla popolazione studentesca dell’Università della Carolina del Nord) riportano che questo tipo di domanda può essere estremamente fuorviante, se non accompagnato da alcuni accorgimenti metodologici. La questione riguarda tanto la domanda in sé, quanto il fatto che non si chiede agli individui se abbiano o meno una chiara idea riguardo ai candidati a tot mesi dalle elezioni. Nei vari esperimenti condotti è stata aggiunta una domanda precedente alle intenzioni di voto che porta alla luce diverse importanti informazioni riguardo alla credibilità delle risposte espresse. Nello studio sopracitato è stato chiesto “Ad oggi, ha già deciso il candidato che vuole supportare alle prossime elezioni, ha una generale propensione oppure sta ancora cercando di decidere?“. I risultati sono davvero soprendenti. Ad un anno dalle elezioni, più di un terzo (media degli studi) delle persone che ha risposto ai vari sondaggii dice di essere ancora in fase decisionale (Figura 3). Poco meno del 20% infatti ha una chiara idea sul candidato per il quale voterà di li a diversi mesi. Nonostante ciò, che la domanda sia presente o meno, quasi il 100% dei rispondenti sceglie uno tra i candidati proposti.
Due aspetti emergono preponderanti. Innanzitutto, le ragioni che spingono gli intervistati a scegliere un candidato piuttosto che un altro nonostante non abbiano una chiara preferenza sono diverse e poco chiare. L’ipotesi più gettonata è che si incorra nel cosiddetto name recognition: i cittadini selezionati per il sondaggio, cioè, non seguendo attentamente la politica a molti mesi dalle elezioni, finiscono per scegliere il candidato del quale hanno sentito parlare di più, nel bene e nel male. Un’altra ipotesi supportata dalla dottrina è il fatto che venga scelto il primo nome della lista: per questo motivo un buon sondaggio prevede che l’ordine con cui viene illustrata serie di nomi venga randomizzata ogni volta, per ovviare a questo errore strutturale.
Detto questo, se la domanda sul livello di intensità è presente, è possibile sviluppare un’analisi veritiera (dividendo le preferenze tra real e fictional); quando non lo è, tutte le preferenze espresse hanno lo stesso peso, e pertanto le analisi possono essere ingannevoli. Ovviamente dovrebbero essere i media, strumento della democrazia, a fornire tutti gli strumenti necessari per analisi accurate e risultati credibili. Ma, come detto, la mera logica del profitto continua a orientare le scelte editoriali di molte testate d’informazione. Per tutti questi motivi, un pubblico attento dovrebbe cosiderare la presenza o meno di una domanda vitale come quella proposta negli studi precedenti e trarre le proprie conclusioni (supportate dagli studi scientifici).
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