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Referendum, Renzi rischia grosso con opposizioni unite

Il 2016 appena iniziato sarà un anno decisivo per la politica italiana. Non ci saranno elezioni politiche o europee. Ma sarà l’anno in cui le più grandi città italiane – Roma, Milano, Napoli, Torino – andranno al voto per rinnovare le loro amministrazioni: secondo Ipsos, il 64% degli italiani attribuisce a queste elezioni una valenza nazionale. Ma il 2016 sarà soprattutto l’anno del referendum sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi.

A meno di improbabili imboscate in occasione delle ultime letture parlamentari, entro la primavera la riforma diventerà legge e il governo ha indicato il 2 ottobre come possibile data del referendum confermativo.

Malgrado solo il 7% degli elettori giudichi le riforme costituzionali una priorità per il Paese (secondo l’istituto Ixè), il premier ha legato il destino del suo governo all’esito della consultazione, annunciando le sue dimissioni nel caso in cui la riforma venisse bocciata nelle urne. A molti è sembrato un azzardo: conviene a Renzi trasformare il referendum in un voto pro o contro di sé? Per tutto il 2015 la fiducia nel premier si è mantenuta sotto il 40%, e anche nell’ultimo mese si è attestata in media al 34%.

Il politologo Piero Ignazi ha recentemente sottolineato il carattere di “contropotere” dell’istituto referendario nella storia politica italiana. In effetti, i precedenti storici più eclatanti (divorzio, preferenza unica, finanziamento ai partiti, nucleare) hanno visto la vittoria della posizione opposta a quella del governo. Polarizzando lo scontro sulla sua figura, Renzi rischierebbe di coalizzare contro di sé un vasto fronte di oppositori (dalla Sinistra alla Lega, passando per il M5s) che in un referendum potrebbero sconfiggerlo, unendo le forze nella battaglia per il “No”, cosa che in una normale elezione non avverrebbe.

Le cose, però, sono un po’ più complesse. Intanto, i precedenti che riguardano i referendum costituzionali (2001 e 2006) restituiscono un’immagine diversa da quella dei referendum abrogativi appena citati. Nel 2001, all’indomani della netta vittoria di Berlusconi alle Politiche, i cittadini confermarono in modo netto la riforma del Titolo V approvata dal centrosinistra sul finire della precedente legislatura. Nel 2006, invece, la revisione costituzionale approvata del centrodestra fu altrettanto platealmente bocciata. In entrambi i casi si trattava di riforme approvate da una sola parte politica. Ma nel 2001 la riforma del centrosinistra che dava più poteri alle Regioni godeva di consensi più trasversali, si pensi alla vocazione federalista della Lega. Nel secondo caso la modifica, approvata senza un confronto con l’opposizione, incontrò una fortissima resistenza.

Diventano determinanti, quindi, i contenuti della riforma: sarebbe ingenuo pensare che Renzi possa impostare la campagna per il “Sì” sulla base dell’operato del suo governo. Molto più probabile che metta l’accento su quegli aspetti del ddl Boschi che incontrano un consenso più trasversale: il taglio dei senatori, l’abrogazione degli enti inutili, la riduzione degli stipendi dei consiglieri regionali. Sono tutti argomenti su cui la riforma può incontrare un consenso più ampio rispetto a quello di cui godono il Pd e il suo segretario-premier. A confermare questa teoria troviamo un sondaggio del Cise (novembre) per il quale i “Sì” sarebbero in testa con il 68%. Ma ancor più sorprendenti sono i dati relativi agli elettorati dei vari partiti: non tanto l’88% di favorevoli tra gli elettori del Pd, quanto il 75% tra gli elettori di Forza Italia, il 55% tra quelli leghisti e il 48% tra quelli del M5s. Solo tra gli elettori di sinistra i contrari sarebbero in netta maggioranza (il 66% contro il 34% di favorevoli). Va detto che questi dati scontano la lontananza dal voto, ed è impossibile sapere come si orienteranno quegli elettori di centrodestra e del M5s che al momento si dichiarano indecisi o non propensi a votare: in entrambi gli elettorati tale gruppo è di gran lunga il più consistente.

Un quadro simile è confermato da un sondaggio Ipr di gennaio, in cui i “Sì” si affermano con il 57%. Possiamo ipotizzare che la mobilitazione della campagna referendaria tenderà ad “avvicinare” le preferenze dei vari elettorati con quella del partito di riferimento. Questo potrebbe suonare come un campanello d’allarme per Palazzo Chigi, visto che nella media dei sondaggi di questo mese la somma di M5s, Lega e sinistra raggiunge il 47,4%, a fronte di un 34,7% dell’area di governo. Del resto, i sondaggi Cise e Ipr ci mostrano che fra 26 e 30 milioni di italiani oggi non voterebbero o sono indecisi: il che introduce un’altra incognita, quella dell’affluenza. Per i referendum confermativi non è previsto il quorum del 50%: ma, trattandosi di un referendum di grande importanza, sarebbe clamoroso se i votanti non si dovessero recare alle urne in gran numero. Una bassa affluenza sarebbe una sconfitta per tutti, promotori e oppositori della riforma, a prescindere dal risultato. Anche questo dà un’idea di quanto sarà agguerrita la campagna elettorale che ci aspetta.


Articolo pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 12 gennaio a cura di Salvatore Borghese e Andrea Piazza

Redazione

La redazione di YouTrend

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