Lo 0,2% è apparso sulle pagine dei giornali italiani da qualche settimana. Numeri come questi non sono il prodotto estemporaneo di qualche eurocrate spregiudicato ostile verso l’Italia. Per capire da dove arrivano, bisogna approfondire un po’. Andiamo con ordine e proviamo a spiegare come si è giunti al braccio di ferro tra Commissione e Governo italiano su questa cifra apparentemente poco importante.
Chi decide e chi monitora i programmi economici e di bilancio dei Paesi Membri?
Sono stabiliti dal semestre europeo, una “finestra di dialogo” per il coordinamento delle politiche economiche e di bilancio dei paesi dell’UE in cui sono coinvolti la Commissione, il Consiglio e i singoli stati membri. Semplificando: la Commissione valuta e propone (dialogando con gli stati), il Consiglio approva e gli stati eseguono.
Lo scopo è duplice. Da un lato, favorire la convergenza delle politiche dei Paesi Membri sulla base di una strategia comune (quella attuale si chiama Europa 2020). Dall’altro, permettere un monitoraggio più efficace e più “dialogato” dei conti pubblici nazionali.
In questo quadro, la Commissione valuta sia l’andamento macroeconomico generale che le situazioni specifiche nazionali. In particolare, essa appura che i “conti siano in ordine”, cioè conformi ai requisiti del patto di stabilità e crescita (i famosi 3% di deficit e 60% di rapporto debito/PIL).
Per mantenere i conti, in ordine il semestre europeo opera in tre fasi. Nella prima si compie un’analisi della situazione macroeconomica e di bilancio di ogni paese, riferita all’anno precedente. Nella seconda si valuta se le bozze del programma di stabilità e del programma di riforme dei governi rispondono alle criticità menzionate nell’analisi. Infine, vengono inviate raccomandazioni specifiche per paese con misure specifiche e target macroeconomici e di bilancio per l’anno successivo. E così via, di anno in anno.
ome si stabilisce quando i conti non sono in ordine?
La posizione di bilancio dei paesi membri è definita in termini strutturali. Essa quindi è stimata su una durata di tre anni per tenere conto dell’andamento macroeconomico. Per determinare quando i conti pubblici sono o non sono in ordine, il patto di stabilità divide i paesi membri in due categorie.
Nella prima ci sono gli stati inseriti nel “braccio preventivo”, cioè con un deficit strutturale inferiore al 3%. Al fine di mantenere una posizione di bilancio positiva ed un debito sostenibile, i paesi di questa fascia concordano con la Commissione degli obiettivi di medio termine di controllo del deficit. Questo significa che se il valore del deficit è vicino alla soglia del 3%, il governo si deve impegnare a delle riduzioni di spesa.
Nella seconda troviamo invece gli stati inseriti nel “braccio correttivo”, ovvero con un deficit superiore al 3%. In questi casi, per i paesi coinvolti viene aperta una procedura per deficit eccessivo. Ai governi vengono imposte misure correttive e, in ultima istanza, sono previste sanzioni, previa approvazione del Consiglio. Trattandosi di una decisione politica, le sanzioni non sono state di fatto mai applicate. Oggi fra i paesi coinvolti nella procedura ci sono Francia, Portogallo e Spagna. L’Italia è uscita dalla procedura nel 2013 grazie alle politiche restrittive del governo Monti (vi era entrata nel 2009).
Alle due categorie corrispondono diversi livelli di flessibilità. In altre parole, i governi possono richiedere deviazioni temporanee dagli obiettivi di medio termine del deficit per i casi seguenti: riforme strutturali, investimenti, eventi eccezionali. Va chiarito che la flessibilità non è accordata automaticamente, ma negoziata nell’ambito del semestre europeo. Si tratta, anche qui, di una decisione politica.
Com’è andata per l’Italia?
Fino a prova contraria l’Italia è inserita nel braccio preventivo, ma è considerata un “sorvegliato speciale”. E non solo per via del suo alto debito pubblico. Vediamo perché.
Per tre anni di fila, dal 2014 al 2016 il Consiglio ha concluso che l’Italia presenta squilibri macroeconomici eccessivi. L’indagine prende in esame 14 indicatori fra cui debito pubblico, debito privato, competitività, import, export e disoccupazione giovanile.
La situazione del paese è ulteriormente complicata del peso del debito pubblico che eccede di molto la soglia del 60% prevista dal patto di stabilità. Per riportare il debito a livelli sostenibili, dal 2012 – con l’entrata in vigore del Fiscal Compact – l’Italia è sottoposta alla regola del debito. Essa impone un tasso di riduzione del debito di 1/20 del suo valore l’anno nella media dei tre esercizi precedenti. Dal picco di 132,5% nel 2015, l’obiettivo è di raggiungere il 123,8% nel 2019.
Al fine di raggiungere gli obiettivi di bilancio e di ridurre gli squilibri macroeconomici eccessivi, il governo italiano si è impegnato a programmi di riforma e di controllo del deficit. La Commissione ha inoltre accordato all’Italia i margini di flessibilità previsti dal patto di stabilità, purché questi non minaccino gli obiettivi di medio termine. In altre parole, si tratta di deviazioni temporanee degli obiettivi che tengono conto delle ricadute positive a lungo termine sulle finanze pubbliche degli interventi previsti.
Per intenderci, nel 2015 la Commissione ha accordato uno 0,4% di flessibilità per le riforme strutturali più un ulteriore 0,25% per gli investimenti. Per le stesse ragioni, la Commissione ha concesso un ulteriore 0,5% di flessibilità nel 2016. Il governo italiano aveva inoltre invocato ulteriore flessibilità per “eventi eccezionali”, cioè la crisi dei migranti e il sisma. Mentre le spese per i migranti erano già incluse, per quelle sul sisma il commissario Moscovici ha frenato.
Dove siamo arrivati oggi?
Oggi la Commissione chiede all’Italia una correzione dello 0,2% per evitare che venga superata la soglia del 3% di deficit. Così facendo l’Italia dovrebbe, inoltre, rispettare gli obiettivi di riduzione del debito di medio termine (raggiungendo l’obiettivo 123,8% nel 2019). In altre parole, se il governo non riduce la spesa di 3,4 miliardi l’Italia passerebbe dal braccio preventivo (conti in ordine) al braccio correttivo (conti in disordine).
Il ministro dell’Economia Padoan ha sottolineato la pericolosità di questa ipotesi. Mentre una manovra correttiva appare inevitabile, la storia ci ha insegnato che le conseguenze della procedura per deficit eccessivo non sono così drastiche.
I numeri manifestano, però, una realtà più complessa. Come dicevamo, i valori di riferimento del deficit sono strutturali e quindi basati su stime pluriennali. Le stime vengono influenzate da oscillazioni macroeconomiche quali l’aumento del prezzo del petrolio o variazioni del PIL. In questo senso, anche il calcolo delle ricadute positive di lungo termine degli investimenti e delle riforme strutturali, che determinano i margini di flessibilità concessi, sono fondati su delle stime. Come il nome suggerisce, le stime cambiano in continuazione.
Stiamo dicendo che i numeri sono sballati? Non proprio, ma qualche domanda sorge spontanea. Perché la Commissione ha concesso ampi margini di flessibilità pur riconoscendo la precaria situazione di bilancio dell’Italia? Le riforme strutturali o gli investimenti sono stati meno efficaci del previsto? Il terremoto ha effettivamente inciso a tal punto sui conti?
In conclusione: la questione dello 0,2% è solo l’ultima tappa di un percorso fatto di vari step, inserito in un processo collaudato e concertato fra più soggetti, governi nazionali compresi. Che poi i princìpi sanciti dai Trattati, gli obiettivi delle politiche e, in soldoni, i numeri possano essere troppo rigidi o insensati, questo è un altro discorso.
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