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Addio zone rosse: il centrosinistra si rinchiude nei centri urbani

La geografia del voto è stata una dei (pochi) punti fermi della nostra Repubblica fin dalla sua nascita. Per decenni, vaste aree di territorio sono state caratterizzate da una socializzazione politica comune. Così, al nord (soprattutto nel lombardo-veneto) nella Prima Repubblica si poteva parlare di zona bianca, in cui tutto ruotava intorno alla Democrazia Cristiana e alle associazioni contigue. Era un tratto identitario talmente forte che ancora oggi quelle zone rimangono a forte impronta conservatrice, anche se la Dc non esista più da decenni e il suo posto è stato preso dalla Lega – tanto che oggi si può parlare di zona verde.Allo stesso modo un fenomeno uguale e contrario si verificava in alcune zone del centro-nord Italia, in particolare in Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche. Erano queste le famose zone rosse, in cui il PCI era una casa, una fede e la militanza per il partito era una delle ragioni di vita. E poco importava se a livello nazionale la conventio ad excludendum negava l’ingresso al governo dei comunisti: il consenso andava sempre e comunque a sinistra.

Questo fenomeno così solido si è protratto fino ai giorni nostri: anche dopo la dissoluzione del PCI, e persino quando il centrosinistra registrava pesanti sconfitte, quelle regioni si sono sempre colorate di rosso nelle mappe elettorali.

Ma ormai da qualche anno anche questa granitica certezza si sta sgretolando. E così, anche in queste zone il colore rosso rischia di non essere più predominante. I segnali c’erano già stati tra amministrative e referendum: ma il dato delle Politiche 2018 ha per certi versi davvero dell’incredibile.

Guardiamo il trend storico, partendo dalla Seconda Repubblica (anche se, come detto, le tendenze potrebbero rilevarsi anche ben prima). Persino in quelle elezioni che hanno visto sconfitta la coalizione di centrosinistra (1994, 2001 e 2008) c’è un pezzo di Italia che è rimasta sempre immodificata: è proprio la zona rossa di cui si è detto. Nel ’94 il centrosinistra prese in Emilia il 49,5%, in Toscana il 51,4%, in Umbria il 51,7% e nelle Marche il 47,4%. Nel 2001, rispettivamente, il 53,3%, il 55,6%, il 51,2% e il 47,1%. Nel 2008 il 50%, il 50,3%, il 47,4% e il 45,9%.

Una zona che ha grosso modo tenuto anche nel 2013, quando l’ingresso sulla scena politica del Movimento 5 Stelle fu devastante per i due poli che fino ad allora si contendevano la vittoria. D’altro canto, il forte successo del partito di Grillo non permise a Bersani di vincere delle elezioni che sembravano ormai ipotecate. E, fra le varie sorprese, si registrò anche la perdita delle Marche, dove il Movimento 5 Stelle fece meglio del centrosinistra (32,1% contro 31,1%). Nelle altre regioni rosse il centrosinistra vinse, ma fece registrare percentuali ben al di sotto della sua storia. Il tripolarismo iniziava a mettere radici anche lì.

Quale cartina ci ha consegnato il voto dello scorso 4 marzo? Sicuramente “rivoluzionata” è l’aggettivo più appropriato per descriverla. Anche gli ultimi baluardi di sinistra, infatti, sono crollati. Di 20 regioni il centrosinistra risulta primo solo in Toscana: uno smacco per una cultura politica, prima ancora che per un partito. Basti pensare che l’Emilia-Romagna è stata ininterrottamente rossa dal ’46, la Toscana è stata blu solo nel ’58 e l’Umbria solo nel ’53 e nel ’58. Discorso inverso per le Marche che sono state rosse “solo” dal ’76 al 2013 (con un “interludio” di azzurro nel ’92). La mappa di oggi, invece, è la seguente:

Un’isola rossa in mezzo a un mare blu e giallo. In Toscana il centrosinistra vince con il 33,7%, mentre in Emilia-Romagna arriva secondo con il 30,8%, battuto dal centrodestra. In Umbria (27,5%) e nelle Marche (24,3%), arriva addirittura terzo.

Col Rosatellum, poi, la vera novità è stata l’introduzione dei collegi uninominali: un meccanismo che, alla prova dei fatti, non ha affatto avvantaggiato il PD, che si è rivelato debole dal punto di vista del radicamento territoriale. Quanti dei 232 collegi della Camera sono andati al centrosinistra? Solo l’11%. Un risultato davvero scarso, che tra le altre cose dimostra come da Roma in giù il centrosinistra non esista quasi più.

Eppure se il PD non è sceso ulteriormente sotto il 18% questo lo si deve essenzialmente a due fattori. Il primo è che le zone rosse, per quanto meno che in passato, comunque hanno votato per il PD in misura maggiore rispetto al resto d’Italia: se altrove il partito di Renzi sembra irrilevante, qui, per quanto malconcio e lontano anni luce dai suoi record storici, qualcosa rimane.

Il secondo fattore, invece, è il dato nelle grandi città. In particolare nei centri cittadini. In queste zone è come vivere in un altro paese, con percentuali del centrosinistra intorno al 40% e oltre. Così, il Partito Democratico italiano ricorda sempre più quello statunitense: forte nelle zone benestanti, con un alto tasso di istruzione e di imponibile medio; debole nelle zone rurali, di campagna, dove la bassa istruzione e la mancanza di lavoro prevalgono.

Così sembrerebbe confermato il cleavage città-campagna, probabilmente uno dei più resistenti ai cambiamenti socio-politici. E lo testimonia il seguente grafico, che mostra il comportamento di voto nei diversi tipi di comune in base alla popolazione.

Nei piccoli comuni fino ai 25.000 abitanti è il centrodestra a primeggiare, mentre in quelli tra i 25.000 e i 100.000 è il Movimento 5 Stelle ad andare meglio. Dai 100.000 in su, però, ecco che il voto al centrosinistra aumenta sensibilmente: prima di quel punto, la sua percentuale è costantemente intorno al 20%.

Per capire quanto questo sia vero, prendiamo ora tre fra le più grandi città del nostro Paese: Torino, Milano e Roma. Analizziamo il voto del collegio centrale di questi comuni. Anche qui, emerge chiaramente l’esistenza di due Italie: una delle province e delle periferie cittadine e una delle città e dei loro centri.

È evidente come ormai il Pd e il centrosinistra abbiano visto ridursi i loro punti di forza a davvero pochissime zone del nostro Paese. Mentre arretrano in quasi tutta la zona rossa, solo i centri cittadini dei comuni più grandi sembrano tenere. Il PD sembra sempre più un partito borghese votato dai più benestanti, come mostrano le mappe di Roma e Torino. Città, però, che vivono al proprio interno realtà completamente differenti tra centro e periferia.

Roma: vincitore e imponibile medio per collegio

Andrea Maccagno

Laureato con lode in Governo e politiche alla LUISS, dove ha collaborato con il CISE, si interessa principalmente di sistemi elettorali e sistemi partitici.
Grande sostenitore dei diritti civili, è stato presidente di un'associazione LGBT

1 commento

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  • Ho scoperto il Vostro sito web solo oggi: davvero complimenti!
    Finalmente la volontà di dare informazioni senza pregiudizi ideologici o peggio proporre valutazioni senza alcun supporto di dati.
    Mi rendo conto che, forse, faccia più parte di un indagine sociologica che statistica, ma riterrei estremamente interessante leggere qualche studio un po’ più approfondito sul perché oggi, come mai prima, in tutto il mondo occidentale, i partiti di sinistra abbiano prevalentemente successo o quantomeno tengano nei grandi centri urbani. Maggior benessere e cultura non penso possano da soli giustificare il fenomeno. E allora quali altri fattori? : maggior propensione al cambiamento? più preparati a gestire paure e stress che che questo periodo ci impone?