Sono passati più di 60 giorni dalle elezioni del 4 marzo e prosegue ancora la fase di stallo. Nessun partito o coalizione infatti gode di una maggioranza autonoma e i vari giri di consultazioni non hanno fatto emergere un’intesa per il governo. Colpa della legge elettorale? No, come abbiamo già avuto modo di dimostrare: anche con altri sistemi, sarebbe cambiato ben poco.
“Questa legge elettorale, tanto vituperata, con un 41% avrebbe consentito di avere una maggioranza”
Lo ha affermato Paolo Romani nella puntata di Porta a Porta andata in onda martedì scorso. Ha ragione l’ex presidente dei senatori di Forza Italia quando sostiene ciò? Vediamo cosa dicono i dati.
Innanzitutto è bene ricordare quanto il tema della soglia implicita del 40% sia stato presente durante la campagna elettorale. Nonostante il Rosatellum non facesse riferimento ad alcuna soglia per avere una maggioranza garantita (giacché il meccanismo del premio previsto dal Porcellum e dall’Italicum era stato dichiarato incostituzionale), le simulazioni mostravano come attorno a quella percentuale si potessero giocare le sorti del futuro governo.
Un nostro studio individuava un intervallo fra il 39% e il 40% come obiettivo minimo da raggiungere per poter avere una maggioranza autonoma alla Camera. Lo dimostravano i numeri, basati sulla distribuzione territoriale del voto emersa nelle precedenti elezioni nazionali (Politiche 2013 ed Europee 2014).
Ma la nuova distribuzione territoriale del voto emersa dal voto del 4 marzo ha complicato quella prospettiva. La nuova geografia politica italiana, infatti, ha visto il Paese spaccato in due: il Centro-Nord nettamente al centrodestra e il Sud ancor più nettamente al Movimento 5 Stelle, con il centrosinistra che tiene in alcune zone della Toscana e in parte dell’Emilia-Romagna, oltre che nei collegi centrali delle grandi città.
In particolare, al Sud l’affermazione del Movimento 5 Stelle in molte aree è andata addirittura oltre il 50%, con un divario rispetto ai secondi (il centrodestra) quantificabile talvolta in decine di punti percentuali. Questo è un fattore da non sottovalutare perché vuol dire che per invertire la tendenza in molti collegi meridionali servirebbe uno spostamento di voti notevole.
E allora proviamo a simulare quale percentuale dovrebbero effettivamente ottenere i “due vincitori” delle ultime elezioni, ossia centrodestra e Movimento 5 Stelle per raggiungere la maggioranza dei seggi, cioè almeno 316 deputati (alla Camera). Per ciascuna delle due ipotesi, proviamo a simulare il risultato aumentando progressivamente, un punto percentuale alla volta, il dato delle Politiche della coalizione considerata, diminuendo proporzionalmente il peso delle altre due coalizioni.
In questa simulazione facciamo quindi l’ipotesi che i voti si spostino da una coalizione all’altra solo all’interno delle tre aree principali (che raccolgono oltre il 90% dei voti), senza variare il dato degli altri partiti. Quindi, ad esempio, il dato di LeU (3,4%), rimane costante qualunque sia la coalizione (centrodestra o M5S) che aumenta i propri voti. Un altro assunto è che, viste le modalità di voto differenti e del tutto autonome rispetto all’arena nazionale, i seggi assegnati nella circoscrizione Estero rimangano invariati (quindi 6 seggi per il centrosinistra, 3 per il centrodestra e 1 per il Movimento 5 Stelle).
Ricapitoliamo il quadro reale alla Camera: centrodestra 37% (265 seggi), M5S 32,7% (227), centrosinistra 22,9% (122).
Da qui, iniziamo ad aggiungere un punto percentuale al centrodestra e a togliere a centrosinistra e M5S una quota di voti in proporzione a quelli ottenuti alle Politiche. A quale cifra il centrodestra deve arrivare affinché ottenga almeno 316 deputati?
In base alla nostra proiezione, la coalizione di Salvini, Berlusconi, Meloni e Fitto dovrebbe arrivare al 42%: ben al di sopra di quel 39-40% di cui si parlava prima del voto, ma anche un po’ di più rispetto al 41% cui alludeva Romani. Con il 42% dei voti il centrodestra potrebbe contare su 327 deputati e formare un governo autonomamente. In questo quadro, il Movimento 5 Stelle avrebbe 189 deputati (perdendo 38 seggi) e il centrosinistra 98 (-24).
Ripetiamo lo stesso procedimento per il Movimento 5 Stelle, che partiva dal risultato del 32,7% delle Politiche. Ebbene, aumentando progressivamente il loro risultato di un punto percentuale alla volta, e diminuendo proporzionalmente le percentuali di centrodestra e centrosinistra, scopriamo che al M5S basterebbe il 41% per poter contare su 317 deputati. Con questo risultato, quindi, il partito di Di Maio potrebbe contare su una maggioranza, per quanto risicata, di un solo deputato. L’opposizione di centrodestra avrebbe 201 seggi (-64) e quella di centrosinistra 96 (-26).
Data le reale distribuzione territoriale del voto emersa il 4 marzo, la nostra stima del 39-40% come “asticella” per l’ottenimento della maggioranza deve quindi essere rivista al rialzo, intorno al 41-42%. La polarizzazione territoriale, soprattutto al Sud, è stata troppo forte. Lo dimostra anche l’analisi del risultato nei collegi uninominali delle diverse macro-aree del Paese.
Nella nostra simulazione, il Movimento 5 Stelle con il 41% guadagnerebbe 55 collegi uninominali, sottraendone 42 al centrodestra e 13 al centrosinistra. In particolare, potrebbe contare su 19 collegi al Nord (+15), 30 nella Zona Rossa (+25) e 99 al Centro-Sud (+15): in questa parte del Paese vincerebbe addirittura il 98% dei collegi in palio, lasciando al centrosinistra solo i due collegi di Roma Trionfale e Roma Montesacro (i collegi dove sono stati eletti Paolo Gentiloni e Marianna Madia).
Dall’altra parte, il centrodestra con il 42% otterrebbe 42 collegi in più rispetto a quelli conquistati il 4 marzo. Dal punto di vista territoriale, il centrodestra guadagnerebbe 35 collegi al Centro-Sud (+22), 30 nella Zona Rossa (+13) e ben 86 al Nord (+7), dove arriverebbe a conquistare il 94,5% dei collegi. Qui rimarrebbero agli avversari solo i collegi di Torino 1, Bolzano, Merano e Bressanone e quello della Valle d’Aosta.
Così, se si tornasse a votare oggi, in base ai sondaggi attuali è impossibile che si possa formare una maggioranza autonoma. Se fosse confermata la distribuzione territoriale delle ultime Politiche, la percentuale da raggiungere si aggirerebbe intorno al 41-42%. Ciò vorrebbe dire che rispetto alle Politiche il centrodestra dovrebbe guadagnare almeno cinque punti e il Movimento 5 Stelle circa otto punti e mezzo. Se anche le nuove elezioni fossero interpretatate come un “secondo turno” rispetto a quelle del 4 marzo (come ha dichiarato Luigi Di Maio dopo l’intervista di Matteo Renzi a Che tempo che fa), la road to 316 sembra meno in salita per la coalizione guidata da Matteo Salvini che per il Movimento fondato da Beppe Grillo.
Grazie per questo e per altri articoli di questo tipo. A me sembra che sarà rilevante l’effetto “doppio turno”, che dovrebbe aiutare a formare una maggioranza stabile, ma anche l’effetto “cambio casacca” nel parlamento così eletto. Quindi forse i calcoli andrebbero fatti considerando una maggioranza un po’ più ampia di un solo voto.
Ma c’è un’altra cosa di cui sono curioso: potrebbe essere che l’effetto “doppio turno” spinga due partiti-raggruppamenti-movimenti, non uno, oltre le varie soglie. Cosa succederebbe? Chi ha “un voto in più”, qualunque cosa questo voglia dire, avrebbe la maggioranza, o potrebbero distruggersi a vicenda (soprattutto con la presenza di altri partiti mettiamo attorno al 10%)?
Bravo Andrea, un altro articolo ben fatto.
E’ evidente che in un sistema tripolare, la soluzione più ovvia e’ il doppio turno, sistema che non garantisce una maggioranza, ma la favorisce. Tuttavia non mi sembra che abbia adeguato sostegno parlamentare.
Un primo possibile compromesso e’ la vostra proposta, il ‘Magnum’, che non assicurerebbe un governo, ma che potrebbe superare alcuni limiti del Rosatellum ed avvicinare i cittadini ai candidati con una architettura elettorale più’ trasparente.
L’altra opzione e’ partire dalla composizione dell’attuale parlamento:
1) I partiti a minore rappresentanza avrebbero verosimilmente una preferenza per il proporzionale.
2) Il CDX potrebbe spingere per un premio di maggioranza a turno unico (chi prende più’ voti vince).
3) Il M5S non disdegnerebbe un doppio turno, con la speranza di poter vincere un ballottaggio con il CDX.
Mettendo insieme i tre punti di cui sopra, questa potrebbe essere la via d’uscita:
– sistema proporzionale con adeguata soglia di sbarramento (3.5%-5%)
– Come per l’Italicum, premio di maggioranza al primo partito se oltre una certa percentuale minima (38%-41%)
– nel caso la condizione sopra non sia soddisfatta, ballottaggio tra le forze che abbiano ottenuto più’ di un terzo dei consensi (33.3%). Tale secondo turno sarebbe valido solo in caso di raggiungimento di un quorum pari al 50%+1 degli aventi diritto al voto (in altre parole, senza quorum si arriverebbe ad un proporzionale puro).
Il premio di maggioranza verrebbe dunque assegnato ad un partito, dato che la Consulta ha già’ dichiarato incostituzionale il premio alle coalizioni del Porcellum.
Inoltre, la necessita’ della soglia minima e del quorum per validare il secondo turno eviterebbe gli elementi di incostituzionalità rilevati dalla Consulta a riguardo del ballottaggio dell’Italicum.
Articolo davvero ben fatto. Il Rosatellum è sicuramente migliorabile sotto molti aspetti, ma non condivido questa corsa che si fa ad ogni elezione a cambiare la legge per favorire/sfavorire i partiti di turno o garantire stabilità. Dietro il continuo adeguamento della legge elettorale si cela la profonda crisi istituzionale in atto dalla fine della Prima Repubblica. Dal ’94 in poi parte dei politici hanno inculcato negli elettori l’idea di un modello semipresidenziale/ presidenziale, che si scontra con la forma di governo parlamentare previsto dalla Costituzione. Anno dopo anno il Parlamento è stato rilegato ad un ruolo sempre più marginale, e al contempo sono fioriti i personalismi in praticamente tutti i partiti italiani. Ora come ora il Parlamento è ridotto ad una sorta di consesso di grandi elettori il cui unico scopo è eleggere un governo, per poi andare avanti a colpi di fiducie. Del resto in 60 giorni non si è parlato di programmi, ma di veti incrociati su partiti e leader.
Questa a mio avviso è la ragioni dello stallo attuale ben più profonda e seria, passatemi il termine, di una legge elettorale.