Filippo Sensi, alias nomfup, è probabilmente lo spin doctor italiano più noto degli ultimi decenni. Diventato celebre come blogger, viene consacrato con la successiva nomina a portavoce prima di Matteo Renzi, poi di Paolo Gentiloni, ma è attivo nel mondo della comunicazione politica da molto prima. Già nel 2001 lo troviamo al fianco di Francesco Rutelli nella campagna dell’Ulivo alle elezioni politiche: vent’anni da testimone privilegiato (e da key player) della comunicazione politica italiana.
Politico.eu qualche anno fa lo definì “Matteo Renzi’s king of spin”, e “l’Alastair Campbell italiano”, una descrizione ben lontana da quella che lui, timido e pacato, dà di sé stesso: “io porto l’acqua”.
Tra le sue – rarissime – interviste di questi anni, possiamo ora aggiungere anche questa, in esclusiva per YouTrend.
Dopo vent’anni da spin doctor, se ti dovessi chiedere quali sono i più grandi cambiamenti che hai visto nella comunicazione politica da dove partiresti?
Sono cambiate moltissime cose ovviamente. Ricordo la campagna elettorale di Francesco Rutelli alle Politiche 2001: ho l’impressione che quella sia stata la prima campagna elettorale “moderna” che abbiamo fatto in Italia. Dico “moderna” per l’uso di una serie di strumenti che prima non si usavano. Gli strumenti cambiano di elezione in elezione, e voi stessi col vostro lavoro testimoniate come stia cambiando l’ambiente della comunicazione politica ed elettorale. Oggi ci sono agenzie, figure professionali che si occupano di tutto questo a tempo pieno e che possono contare su una serie di strumenti, dati e abilità che prima non c’erano. Per chi fa comunicazione politica questa è una novità sostanziale rispetto agli anni Novanta o persino ai primi anni Duemila. Poi, c’è la Rete: quando ho cominciato a fare questo lavoro internet non esisteva, era una cosa pionieristica; oggi è l’ambiente in cui ognuno di noi è calato fin dalla nascita. Questo trasforma tutto: il modo in cui comunichi, gli obiettivi. Più in generale, c’è stata una spinta fortissima verso la personalizzazione della contesa politica. Per certi versi c’è sempre stata, ma è innegabile che oggi un leader sia la “macchia di Rorschach” con cui il cittadino segue e interpreta la politica e si approccia al momento elettorale nel proprio paese.
Parlavi della campagna di Rutelli, ovvero una delle prime esperienze di un consulente americano in Italia, Stanley Greenberg, storico spin doctor di Blair e Clinton. Più recentemente, hai lavorato al fianco di Jim Messina e del suo staff. Che differenze hai riscontrato in termini di “stile” con i consulenti provenienti dagli Stati Uniti? Pensi che i consulenti americani fossero “adatti” a lavorare in Italia?
Sfatiamo un mito, quello secondo cui i consulenti americani sono adatti quando vinci e non sono adatti quando perdi. La campagna Berlusconi-Rutelli del 2001 introdusse questo elemento di “aiuto esterno”, per così dire. Gli americani hanno un approccio diverso, chiaramente per loro è difficile calarsi nel contesto italiano, dove – tanto per dirne una – non ci sono gli spot televisivi, che in America rappresentano grande parte del budget di campagna. Poi tra loro ci sono persone più o meno interessanti, che hanno un approccio più o meno utile e strumenti più o meno efficaci, non si può generalizzare. Voi avete avuto ospite a Election Days™ Tara Corrigan, che da questo punto di vista è sicuramente una persona molto valida. Oggi possiamo confrontarci con loro un po’ più a testa alta grazie alla professionalizzazione crescente. Ma, in generale, un consulente americano non può da solo dare una svolta alla tua campagna elettorale. Non perché siano una “sòla” [fregatura, ndr] come si dice a Roma, ma perché siamo diventati più bravi noi, siamo cresciuti, abbiamo ridotto il “gap”. Una persona come Greenberg, tra l’altro, non è un mero consulente: è una persona stimolante, con cui confrontarsi, che ha un approccio sociologico complesso. Queste non sono persone a cui puoi chiedere banalmente di fare una campagna “on demand”, hanno una visione molto strutturata.
Parliamo dei social network. Quanto hanno cambiato le campagne elettorali?
Tantissimo, in modo radicale. Lo vediamo da anni, è una tendenza sempre più forte. Io ho fatto sempre un lavoro di ufficio stampa, e lavoravo con lo strumento classico del comunicato stampa. Il processo era: raccogli il comunicato stampa dal personaggio politico, scrivilo e fattelo revisionare, poi fallo uscire sulle agenzie, e aggiungi qualche telefonata alle redazioni. Insomma, una battaglia in più passaggi, al rallentatore. Oggi i comunicati stampa continuano a essere importanti, non voglio dir di no, ma con un tweet di Salvini o un post Facebook di Renzi o una diretta Instagram di Di Maio tu puoi uscire immediatamente sulle edizioni online dei giornali. Questo accelera moltissimo le cose e crea un ambiente ultra-saturo. Oggi il fatto politico non nasce più soltanto in Parlamento (come accadeva un tempo) e nemmeno quasi più in televisione: nasce sui social, nasce qui [indica lo smartphone, ndr].
Ma i social non hanno anche un po’ “imbruttito”, imbarbarito la politica?
Sicuramente hanno avuto un impatto enorme. Oggi c’è quasi una coincidenza tra le persone e il proprio cellulare. E come con tutti gli strumenti che incidono in modo così radicale sulla tua sfera quotidiana, sulla tua identità, questo può rappresentare un’opportunità oppure può rinchiuderti in una bolla, e darti l’idea di poter insultare chiunque o farti sentire soddisfatto per il solo fatto di poterti rivolgere direttamente a un’autorità politica o istituzionale. È vero che c’è un imbarbarimento del linguaggio, però c’è anche un lato positivo nella brevità. In questo penso soprattutto a Twitter, che è vero – come diceva Morisi nella vostra intervista – che rappresenta una nicchia, lo dicono i numeri. Ma proprio perché la catena si è accorciata in termini di tempo si è allungato l’elenco degli stakeholder dell’informazione: un tweet viene ripreso da TV e giornali, per cui dal punto di vista della diffusione, dell’intensità e della rapidità i social sono strumenti incomparabili.
Più precisamente in cosa consiste il lato positivo che vedi in questa brevità?
La brevità del tweet, l’esposizione della diretta, l’engagement del post FB sono utili perché servono a sferzare la politica. Una politica che per anni abbiamo accusato di parlarsi addosso, di essere contorta: oggi i social la costringono a esporsi costantemente. Questo porta a esasperazione, nausea, stanchezza, banalizzazione? Non c’è dubbio: dove trovi il tempo per leggere, approfondire, studiare, amare – in una parola – vivere? Però è anche vero che così non sei costretto a fare comizi di molte ore, ora puoi dire cose importanti in meno di 200 caratteri. Non devi essere necessariamente più aggressivo: puoi anche essere semplicemente più netto, andare dritto al punto. Io non sono uno che se la prende con i tempi moderni, contro le innovazioni. Penso che dipenda sempre da noi, dall’uso che facciamo degli strumenti della modernità.
Di recente ci sono state polemiche che hanno investito il portavoce di Palazzo Chigi, Rocco Casalino. Anche tu sei stato al centro di alcune polemiche (anche se di tipo diverso) quando ricoprivi quel ruolo. Qual è secondo te il rapporto corretto che bisognerebbe avere con la stampa?
Intanto bisogna capire che esiste un rapporto triangolare tra istituzione, stampa e politica elettorale. Una parte della critica che oggi noi come opposizione facciamo alla maggioranza è quella di politicizzare, strumentalizzare le istituzioni a fini elettorali. Una comunicazione 24/7 fatta con dirette, selfie, eccetera è da sempre vista dalle opposizioni come un abuso della comunicazione istituzionale. Quella che una volta era un’eccezione, vista come un’innovazione, oggi è diventata la normalità. Chiaramente scelte come quella del balcone al posto della conferenza stampa sono cose che si prestano alla critica dell’opposizione. Qual è la giusta misura? Ognuno ha la sua, anche perché oggi la stampa non è più l’unico player tra politica e cittadini: oggi la Rete ha messo fuori gioco sia la stampa che la politica. Io penso che tu quando rappresenti un’istituzione rappresenti la democrazia, i cittadini, e devi sentire su di te questa responsabilità. Poi a volte si fanno degli errori, per stanchezza o per nervosismo, ci può stare.
Dici che bisogna sentire la responsabilità di rappresentare la democrazia, ma che bisogna accettare certi errori perché fanno comunque parte del gioco?
Certo, se diventano una costante può essere un problema. Ma non voglio criticare Rocco Casalino, non è il mio stile. L’altro giorno ero in Aula, in uno di quei giorni in cui non c’era quasi nessuno. A un certo punto ho pensato di andarmene senza finire di seguire il dibattito. Poi ho alzato lo sguardo e ho visto che c’era una scolaresca, venuta lì da non so quale città d’Italia. Magari si stavano annoiando, magari ci guardavano come si guardano degli animali esotici in gabbia (e dentro di me penso che le gite scolastiche alla Camera siano la più grande fucina di antipolitica che esista). Però sono rimasto lì, nel posto che mi era stato dato da un voto. Di fronte a quei ragazzi ho avvertito quella responsabilità di cui ti dicevo e sono rimasto al mio posto. Quando sei al Governo poi ti ritrovi anche in situazioni come i summit internazionali, quindi questa cosa è ancora maggiore. Devi sempre avvertire la presenza di questo “terzo occhio” su di te.
Di recente è uscita un’indagine del Censis sull’informazione e sulla dieta mediatica, che va però in direzione opposta a quella che ci siamo detti sull’utilizzo dei nuovi media.
C’è forse una sorta di “riflusso” nell’utilizzo dei new media, ad esempio persone che si disiscrivono da Facebook. Però secondo me gran parte della nostra vita, personale e sociale, passa e passerà ancora attraverso i social. Ma anche app di chat come Whatsapp o Telegram, che non sono un social vero e proprio, sono ormai imprescindibili. Non penso che ci sia un riflusso in senso lato, ormai tutti noi siamo molto dentro questo ambiente. Non vorrei che ci fosse un “ottimismo della ragione” su questo: tutti sogniamo di fermare il mondo e di scendere, di disintossicarci. E ben venga crearsi degli spazi propri e dilatarli a proprio piacimento. Ma fino a che punto è possibile crearci questi spazi quando gran parte della nostra socializzazione passa attraverso questi strumenti? Qui è in gioco non dico la nostra anima, ma di sicuro la nostra identità. Certamente ogni tanto questa situazione ci dà un po’ di nausea, però poi dov’è che corriamo a esprimere questo senso di nausea? Proprio sui social. Guardiamo i più giovani: io ho tre figli, se li guardo mi rendo conto che è cambiato moltissimo il modo di stare insieme in famiglia la sera. Già quando io ero giovane mi rimproveravano di stare davanti alla TV. Oggi la TV la vedo solo io, è quello che poteva essere la pipa per mio padre, per i ragazzi di oggi è solo un rumore di fondo mentre chattano, o vedono Netflix o un video su YouTube. Insomma: questo dato del Censis lo interpreterei con il fatto che il nostro “organismo sociale” è in continua trasformazione.
Torniamo però alla politica. Qual è stato secondo te lo snodo negativo dell’esperienza di Matteo Renzi? La sconfitta al referendum costituzionale o qualcosa che è avvenuto ancora prima?
A questa domanda non ti posso rispondere, perché sono stato troppo “dentro” quell’esperienza per farlo e poi non mi piace fare discorsi “col senno di poi”. È ovvio che io non solo difenda, ma sia orgoglioso del lavoro fatto dai governi Renzi e Gentiloni. Visto il ruolo che ho ricoperto tendo a prendermi la responsabilità delle cose che sono successe, nel bene e nel male. Quello che è andato male nella comunicazione politico-istituzionale è colpa mia. Detto questo, io penso che le leadership politiche vadano giudicate su un arco di tempo più lungo. Così come un campionato di calcio non si giudica da una singola giornata, perché si può vincere e si può perdere ma alla fine conta la classifica finale. Il tempo è galantuomo: se il tuo fermo immagine è limitato al referendum o alle Politiche del 4 marzo – così come alle Europee 2014 – è un conto. Ma penso che le leadership vadano “narrate” su un arco più lungo.
Sei un amante di politica inglese e sicuramente ricorderai il rebranding che fece Tony Blair del Labour in un momento di crisi politica. Ecco, il PD è arrivato a un momento simile? L’esistenza del partito ha ancora un senso o magari deve cambiare nome?
Qui devo fare una duplice premessa, un doppio “disclaimer”: io sono parlamentare del PD ma sono anche un dipendente del PD. Detto questo, io penso che il PD possa rilanciarsi perché presidia uno spazio, insiste su uno spazio politico che in Italia c’è e continuerà ad esserci. A proposito della lunga durata di cui parlavo: il giorno dopo le Europee 2014 i commenti sul Partito Democratico erano del tipo “c’è un nuovo blocco sociale”, “ce li terremo per 20 anni”, e così via. Ma se oggi i brand diventano “tossici” e deperiscono rapidamente, si depurano anche altrettanto rapidamente: perché è tutto più veloce. Ovviamente c’è bisogno di lavoro perché le cose vadano nella giusta direzione. Non parlo solo del PD, ma in generale dei “marchi” politici. Lo vediamo anche in Europa: pensa all’irresistibile ascesa di En Marche, partito iper-personalizzato (con le iniziali che sono le stesse di Macron) che nasce con uno sfondamento delle asfittiche griglie ideologiche tradizionali. Sono la volatilità, la porosità, il carattere aereo della politica attuale che fanno sì che deperiscano velocemente ma che possano anche tornare a fiorire.
Ma se il PD può rilanciarsi, come deve farlo? Se dovessi dare uno o più consigli a chi dovrà guidare il PD, cosa gli diresti?
Non lo so, molto dipende dal contesto che è molto instabile: di qui alla fine del percorso congressuale (che deve ancora partire) che cosa ci sarà intorno? L’assetto attuale? Un peggioramento dei sondaggi? La fine della luna di miele per il governo? Il downgrade delle agenzie di rating? Il contesto ha una sua importanza nel posizionamento (o riposizionamento). Non mi sento di dare consigli, anche perché dipende da varie cose: chi sarà il leader? Quale sarà il carattere del suo PD? Più socialista/corbynista, più alla Sanders, più riformista? Una volta stabilite tutte queste cose si può provare a capire che tipo di lavoro fare, ad esempio che tono usare sui social.
Ma ci saranno pure alcune cose da fare a prescindere dal contesto politico generale o dal nome del nuovo segretario…
Sicuramente. Bisogna affrontare alcune contraddizioni, cortocircuiti del mondo dell’informazione. Il fatto che per anni i 5 Stelle siano andati nei talk show senza contraddittorio è stato sicuramente un asso nella manica, per loro. Personalmente io penso che sia vergognoso, non seguirei quella impostazione; però mi porrei più di una domanda su come ovviare al lato negativo di questo schema di gioco. Ce lo siamo posti in passato, ma evidentemente non ci siamo risposti in maniera efficace. Potrei dirti banalità tipo “coinvolgiamo i giovani”, “andiamo sulle loro piattaforme”, e invece ti dico: il partito su FB deve crescere a livello quantitativo e in TV ci dobbiamo andare ancora più “sgamati”. Non che prima fossimo delle mammole, ma andarci sapendo che nei nostri confronti c’è un certo tipo di clima. L’abbiamo subìto quando eravamo maggioranza, figuriamoci oggi come opposizione. Ultima cosa: serve un coordinamento tra centro (Roma) e territorio, la capacità di raccogliere, ascoltare, coinvolgere le tantissime energie anche dal punto di vista comunicativo che ci sono per l’Italia. Racconto un piccolo aneddoto: qualche tempo fa durante un’iniziativa pubblica in uno dei municipi di Roma, Christian Raimo, intellettuale e assessore della giunta municipale, mi diceva che aveva raccolto in un colpo solo 30-40 email di persone che si volevano mobilitare, dare una mano. Vuol dire che ci sono energie, c’è voglia. Tanto più si è capaci di coinvolgere, mettere in rete, far circolare questa energia in un organismo complesso, anche “anziano” come il nostro partito, tanto più si può fare questo lavoro di cui parlavo.
Quando si parla di comunicazione, il tema principale è “recuperare credibilità”. Tutti si aspettano che si parli di nuovi strumenti, mentre bisogna trovare la modalità di usare gli strumenti che già ci sono in modo umile, per ascoltare. Adesso si parla della “Bestia” come uno strumento capace di fare la differenza. Che ne pensi di ciò che ha detto Morisi nella sua intervista?
Ha detto molte cose interessanti. Molte ovviamente non le condivido, ma non voglio fare polemica. Leggendola si ha l’impressione che il comunicatore sia qualcosa di “terzo” rispetto a un processo. Ma tu non sei terzo, sei parte di quel processo e te ne devi prendere le responsabilità – oltre agli onori, ovviamente. Non puoi dire “questo è quello che gira sulla Rete, la Rete come un organismo autonomo decide cosa va bene e cosa no”. Talvolta è sembrato a-valutativo, invece io penso che un certo tipo di lavoro ha delle conseguenze e delle responsabilità, non lo dico per demonizzare o criminalizzare. Le scelte portano delle conseguenze, non puoi dire “decide la Rete” o “decide il Capitano”. C’è sempre l’idea che ci sia un marchingegno che risolve tutto. Dentro il “culto della Bestia” che i media coltivano in questo periodo – per carità sarà super efficace, non lo metto in dubbio – c’è il fatto che quando si vince è tutto mitico, e ci sta, quando fai questo lavoro capisci che anche l’entropia ha un ruolo. L’idea che la ricetta, il marchingegno, gli alambicchi possano surrogare la pazienza, la strategia…è sbagliata.
Ma non è un’idea solo italiana, credo. Oppure lo è?
Era così anche in Inghilterra negli anni Novanta, quando i conservatori raccontavano di questo database del Labour, Excalibur, di questo Campbell [consulente di Tony Blair, ndr] che aveva in mano “la spada del re”. Era un database che metteva insieme fonti di stampa aperte, cose che oggi vengono elaborate in un battito di ciglia da algoritmi digitali ma all’epoca in UK veniva fatto da uno staff molto preparato. Un tempo non c’erano cellulari, c’era il Teledrin, che ti segnalava che qualcuno ti stava cercando, un aggeggio che usavano i medici. L’utilizzo di questo cercapersone fu visto come una cosa sconvolgente: un ufficio stampa che riusciva a reperirti in tempo reale! E parliamo di vent’anni fa o poco più. Ma l’idea suggestiva che ci sia chissà quale diavoleria tecnologica inarrestabile in grado di sgominare gli avversari per vincere le elezioni è rimasta. E invece tutto questo non può supplire o surrogare il lavoro, il lavoro e il lavoro. E l’intuito. Sono cose che aiutano, ma non sostituiscono. Tutti questi strumenti e queste piattaforme sono preziosissime e utili ma devono essere mediate e lavorate da intelligenze personali, individuali e collettive.
Pensi che ci sia un valore dell’etica in questo lavoro? E qual è il limite?
L’etica è parte della nostra vita. Non voglio dare dei precetti, i limiti dell’etica si spostano. Penso ci siano semplicemente cose che non bisogna fare. Però capisco anche che un pizzico in più di spregiudicatezza non equivalga a immoralità. Penso che se lavori in un’istituzione questo lo devi sentire: non so se è giusto parlare di etica, ma sicuramente di responsabilità che ti è data dall’incarico che ricopri, fosse anche solo per il fatto che il tuo stipendio è pagato dal contribuente e devi essere pronto a rispondere di questo. Per tornare agli anni Novanta: uno come Alastair Campbell era molto spregiudicato, era considerato molto aggressivo, e questo all’epoca veniva denunciato, sono stati anche scritti dei libri in proposito. Personalmente questo lavoro me l’ha insegnato Michele Anzaldi, una persona di un’umanità e con un senso dell’etica che ho ritrovato raramente in altre persone, anche al di fuori della politica. Uno degli spin doctor più spregiudicati che forse ci siano mai stati nella comunicazione americana è Lee Atwater. Molti consulenti e consiglieri repubblicani, da Karl Rove a persone che oggi lavorano con Trump, vengono da quella esperienza. Atwater era il più sveglio tra tutti i comunicatori repubblicani, e completamente spregiudicato: il suo obiettivo era vincere, ad ogni costo. Ha lavorato con Reagan e con Bush padre e una volta fece uno spot in cui giocava sul fatto che un suo avversario aveva subito delle cure psichiatriche, e in cui si vedeva questo candidato con gli elettrodi in testa; in un altro instillava la paura dello stupratore, del “nero”. All’apice della sua carriera si ammalò per un tumore fulminante al cervello e morì di lì a poco. Nella sua ultima intervista, devastato dalla malattia – lui che da giovane era stato un tipo fichissimo, che suonava la chitarra – si pente profondamente di quello che ha fatto, fa un’intervista molto candida. Questa cosa mi ha sempre colpito: qualche cinico avrà pensato che quello sia stato l’ultimo “colpo da maestro” di Atwater.
Che lezioni possiamo trarre dalla storia di Atwater?
Io personalmente ne ricavo tre. La prima è che il potere passa: oggi sei sugli altari, domani nella polvere. La seconda è che la vita emerge anche quando fai un mestiere così totalizzante come la comunicazione politica: mai dimenticare di portarsi, se si può, la propria vita in quello che fai. Terza e ultima cosa: cerca di non vergognarti di quello che hai fatto. Sbagli, leggerezze, errori di valutazioni, ne avrai fatte e le fa chiunque, però ogni tanto prova a riavvolgere il nastro. Cerca sempre di uscirne “pulito”. Non nel senso di non farti pizzicare, ma nel senso di non commettere questi errori e se li hai commessi di avere la forza di chiedere scusa.
(Foto: Irene Valentino)
L’intervista a Filippo Sensi è la seconda di una serie di interviste, realizzate da Lorenzo Pregliasco e Giovanni Diamanti, che vedranno protagonisti alcuni dei principali esperti di comunicazione politica ed elettorale. Clicca qui per rileggere la prima intervista a Luca Morisi.
Commenta