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6 motivi per cui Beto può vincere in Texas

“Can Beto O’Rourke really beat Ted Cruz in Texas?”. Beto può davvero sconfiggere Ted Cruz in Texas? Se fate una ricerca su Google o su YouTube, troverete un bel numero di articoli e video che provano a dare una risposta. Ma cerchiamo di capire, numeri alla mano, cosa possiamo aspettarci dalla sfida per il Senato in Texas, una delle più importanti fra le elezioni di midterm di martedì prossimo.

1. Quanto conta il Texas in queste midterm?

Il primo motivo per cui le elezioni di midterm in Texas sono importanti è che il risultato del Texas potrebbe decidere chi avrà la maggioranza al Senato: le stime attuali dicono che sulle otto sfide considerate “chiave” i Democratici devono vincerne almeno 6 per conquistare i 51 seggi necessari. 5 sono considerate in bilico o con un lieve vantaggio per i Democratici (Florida, Indiana, Arizona, Missouri, Nevada), ma il problema riguarda le altre tre: se vogliono sperare di ottenere la maggioranza, i Democratici devono vincere almeno uno fra Texas, Tennessee e North Dakota. Tre stati stravinti, alle presidenziali di due anni fa, da Donald Trump (63% a 27% il North Dakota, 61% a 35% il Tennessee, 52% a 43% il Texas).

2. Beto O’Rourke e Ted Cruz

Il secondo motivo è più simbolico, e ha a che fare con il profilo dei candidati: Ted Cruz è uno dei più influenti senatori repubblicani, è stato lo sfidante ad andare più in fondo nelle primarie vinte da Donald Trump, potrebbe avere un futuro da candidato alla Casa Bianca. Viene considerato un importante rappresentante dell’ala di destra del Partito repubblicano, quella più conservatrice, ed è vicino al Tea Party.

Dall’altra parte Beto O’Rourke, dal 2012 deputato del collegio di El Paso, un collegio che si trova all’estremità occidentale dello stato, proprio sul confine con il Messico, e che è molto democratico (Beto due anni fa è stato rieletto con l’86% dei voti). Beto, che si chiamerebbe Robert ma si fa chiamare con il diminutivo spagnolo, ha 46 anni ed è ritenuto da molti un possibile volto nuovo per i Democratici in vista delle presidenziali del 2020. La sua campagna è stata capace di raccogliere più soldi di qualunque altra campagna elettorale per il Senato nella storia degli Stati Uniti: un’enormità di finanziamenti, più di 70 milioni di dollari, pervenuti grazie soprattutto a piccole donazioni (molte delle quali, secondo analisi che però si basano su dati parziali, sono arrivate da altri stati).

Beto, che gli ammiratori descrivono ‘kennediano’ – un tratto sul quale Ted Cruz lo prende spesso in giro –, ha potuto fin qui godere di una notevole visibilità mediatica a livello nazionale, anche in trasmissioni televisive di intrattenimento.

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Particolarmente interessante è il primo spot ufficiale della sua campagna: girato interamente con uno smartphone, ha documentato – attraverso un linguaggio che più disintermediato non si potrebbe – il tour di tutte e 254 le contee del Texas, un’iniziativa su cui Beto sembra aver puntato molto.

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3. Il Texas sta cambiando. Ma cambierà abbastanza?

Suonerà sorprendente, ma il Texas non è sempre stato uno stato “rosso”, cioè repubblicano. Quando Bill Clements divenne governatore, nel 1978, fu il primo membro del GOP a vincere dai tempi della riammissione del Texas nell’Unione, avvenuta il 30 marzo 1870 (per gli appassionati: qui il podcast di Texas Monthly racconta la sua campagna). Nel 1961 John Tower (un ex democratico) era stato il primo repubblicano a essere eletto al Senato.

Dal 1900 al 1948 il Texas ha votato 12 volte su 13 i candidati democratici alla presidenza, e ancora dopo la parentesi di Eisenhower hanno prevalso 4 democratici su 5 (Kennedy, Johnson, Humphrey e Carter) fino alla landslide di Reagan del 1980.

Solo negli ultimi decenni il Texas da patria dei Southern Democrats si è trasformato in uno stato solidamente repubblicano, in parte per la crescente polarizzazione politica che ha ridefinito i Democratici come partito liberal e progressista e i Repubblicani come partito conservatore, e in parte per l’eredità dei programmi della New Frontier e del Civil Rights Act firmato da Lyndon Johnson nel 1964. Per approfondire, qui c’è un’interessante analisi di KUT.

Texas, storico voto
L’evoluzione del voto alle presidenziali in Texas (fonte: KUT)

Detto questo, è da almeno otto anni molti osservatori scrivono che, a causa dell’evoluzione demografica (crescita dei latinos e delle aree urbane progressiste di Austin, Houston e Dallas) il Texas si trasformerà in uno “stato viola”, cioè swing, in cui Democratici e Repubblicani possono contendersi la vittoria all’ultimo voto. Se guardiamo i risultati delle presidenziali, Hillary Clinton nel 2016 ha perso di “soli” 9 punti, laddove Obama aveva perso di 16 punti nel 2012 e 11 nel 2008.

La domanda, anche questa volta, sembra essere: il Texas starà cambiando abbastanza per eleggere un democratico come Beto al Senato, qualcosa che i Democratici non riescono a fare dal 1988? James Carville, il leggendario stratega dietro l’elezione di Bill Clinton nel 1992, non ne è convinto, anche se riconosce che Beto O’Rourke è uno di quei candidati capaci di avere un grande impatto anche in caso di sconfitta.

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4. La geografia: città e campagna

Il Texas è uno stato molto variegato, con aree rurali, suburbs e grandi città. Il risultato del 2016 è stato definito come “puntini blu in un mare rosso”.

Due anni fa la Clinton ha vinto largamente nelle contee urbane di Austin (66% a 27%), San Antonio (54% a 41%), Houston (54% a 42%) e Dallas (61% a 35%), oltre che sul confine con il Messico dove la presenza ispanica è massiccia (a El Paso, città di Beto, Hillary ha preso quasi il 70%; a Laredo siamo quasi all’80%).

Trump ha invece stravinto nelle contee rurali (70% a 26% secondo gli exit poll Edison), come ad esempio quelle del Texas occidentale, verso l’Oklahoma, ma anche nei suburbs (58% a 37%), che costituiscono quasi la metà della popolazione votante dello stato.

Le analisi dicono che se oggi Beto O’Rourke vuole avere speranze di strappare il seggio ai Repubblicani deve puntare a recuperare lo svantaggio nei suburbs e soprattutto nel Texas orientale, di cui parla questa analisi del New York Times.

5. La demografia: i Latinos, i giovani e l’astensione

L’abbiamo detto sopra: il Texas è uno stato sempre meno bianco e con sempre più latinos, soprattutto di origine messicana. Il Censimento del 2010 stimava che il 38% della popolazione texana fosse ispanica, ma nel 2017 si era già superato il 40% e le previsioni indicano che nel 2022 i latinos saranno la maggioranza relativa in Texas.

Eppure, i latinos votano poco. Nel 2016, pur essendo il 40% dell’elettorato, hanno rappresentato solo il 24% dei votanti (anche perché molti sono minorenni).

Per vincere, Beto deve riuscire a mettere insieme una ‘coalizione’ elettorale molto variegata, portando al voto più latinos che in passato – un compito difficile, come spiegato qui – e riuscendo nel contempo a convincere una buona percentuale di bianchi, soprattutto ex elettori Repubblicani e ex astensionisti.

L’astensione è in effetti un vero problema in Texas: qui su Texas Tribune trovate un’analisi approfondita della materia, che illustra ad esempio come in Texas i giovani votino davvero poco. Per un approfondimento sui latinos, potete dare un’occhiata a We Are Texas, uno studio che evidenzia come fra gli elettori ispanici l’affluenza sia bassa anche per questioni come la scarsità di informazioni sulle elezioni, i molti non-registrati (soprattutto fra i giovani e le donne) e un diffuso sentimento di sfiducia verso la politica.

6. Ma quindi Beto può farcela?

Le analisi svolte sulla base dei sondaggi e del comportamento elettorale passato dicono che una vittoria di Beto O’Rourke è improbabile, anche se non impossibile. Il sito di previsioni elettorali FiveThirtyEight ricava dai sondaggi degli ultimi mesi una tendenza che vede Cruz al 51,7% e O’Rourke al 46,7, dando a Beto 2 possibilità su 9 di vincere (il 21%). Beto non è mai stato dato in testa da un sondaggio e una sua vittoria, che sarebbe sorprendente, potrebbe passare solo da un errore sistematico nelle rilevazioni svolte finora o da una conformazione imprevista dell’elettorato che andrà a votare martedì 6 novembre.

L’identikit degli elettori è infatti particolarmente complesso nelle elezioni di midterm e ancor più difficoltoso in uno stato a bassa affluenza come il Texas. Il sondaggio Upshot/Siena College, che assegna a Cruz 8 punti di vantaggio, prevede infatti un solo scenario in cui il modello di conformazione dell’elettorato potrebbe premiare O’Rourke: quello in cui alla fine andassero a votare soltanto gli elettori che si dicono certi o quasi certi di farlo.

Lorenzo Pregliasco

Nato nel 1987 a Torino. Si è laureato con una tesi su Obama, è stato tra i fondatori di Termometro Politico, collabora con «l'Espresso» e ha scritto su «Politico», «Aspenia», «La Stampa».
È regolarmente ospite di Sky TG24, Rai News, La7 e interviene frequentemente su media internazionali come Reuters, BBC, Financial Times, Wall Street Journal, Euronews, Bloomberg.
Insegna all'Università di Bologna, alla 24Ore Business School e alla Scuola Holden.
Ha scritto Il crollo. Dizionario semiserio delle 101 parole che hanno fatto e disfatto la Seconda Repubblica (Editori Riuniti, 2013), Una nuova Italia. Dalla comunicazione ai risultati, un'analisi delle elezioni del 4 marzo (Castelvecchi, 2018) e Fenomeno Salvini. Chi è, come comunica, perché lo votano (Castelvecchi, 2019).
È direttore di YouTrend.

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