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USA 2016: chi ha vinto il dibattito, e quanti voti sposta?

Stanotte è andato in scena il primo, e per questo il più atteso, dei dibattiti presidenziali fra Hillary Clinton e Donald Trumpqui trovate il resoconto migliore che possiate trovare in lingua italiana, di Francesco Costa; qui, le 7 regole per vincere un dibattito secondo il nostro Giovanni Diamanti).

Secondo la gran parte degli analisti e degli osservatori Hillary è risultata più convincente e composta, e certamente anche meglio preparata al format del faccia a faccia di quanto non fosse il suo avversario. Ma se è vero che questo confronto è stato fra i più importanti degli ultimi decenni – per il profilo dei due candidati, per l’alto numero degli indecisi, per il testa a testa nei sondaggi – ci sono numeri o analisi che consentano di capire come il confronto è stato vissuto dall’opinione pubblica americana, e quanti voti potrà spostare?

Per prima cosa, esistono diversi strumenti per misurare la performance di un candidato in un dibattito presidenziale, e ciascuno ha i suoi problemi, innanzitutto perché il sottocampione di popolazione americana che guarda i dibattiti (un sottocampione bello grosso, ieri, pare intorno ai 100 milioni) non corrisponde all’elettorato americano in generale.

Come ha premesso il political director della CNN David Chalian, infatti, gli elettori democratici tendono a guardare i dibattiti più di quelli repubblicani.

Comunque, i tre strumenti più utilizzati per capire chi ha ‘vinto’ un dibattito sono:

1) Sondaggi instant su un campione, appunto, di debate viewers. Cioè di persone che hanno visto il faccia a faccia. Solitamente gli istituti di ricerca selezionano qualche giorno prima del dibattito un campione di persone che dichiarano che lo guarderanno, e che si dicono disponibili a essere interpellati nuovamente appena dopo la fine del confronto. Ecco perché il tipo di persone intervistato in questi sondaggi non corrisponde all’elettorato generale: come dicevamo ci sono più democratici, e probabilmente persone più interessate alla politica rispetto alla media.

Comunque, con tutti i caveat del caso, i sondaggi così sul primo scontro Clinton-Trump sono stati soltanto due. Uno condotto da ORC per la CNN, che ha dato Clinton vincente con il 62% contro il 27% di Trump, e un altro, svolto da PPP, che ha registrato un’affermazione meno marcata: 51% per Clinton e 40% per Trump.

Una prima osservazione interessante è che il giudizio sul vincitore del dibattito ricalca in buona parte il posizionamento politico o la demografia degli intervistati: Hillary è andata forte soprattutto fra i giovani (63% a 24% per PPP), le donne (54% a 36%) e le minoranze (77% a 13% fra afro-americani e ispanici). Per contro, Donald Trump è andato meglio in segmenti a lui più vicini, anche se non ha sfondato nemmeno lì: fra i repubblicani è stato indicato come più convincente dal 55% per CNN/ORC, fra i conservatori dal 48%, e solo dal 35% presso un elettorato a lui molto congeniale, cioè i bianchi senza laurea, dove la Clinton lo ha sopravanzato di 14 punti.

2) Focus group, generalmente su elettori indecisi. I focus group sono una tecnica di ricerca qualitativa – che cioè fornisce informazioni utilissime sulle motivazioni, gli orientamenti, le reazioni spontanee, ma non indicazioni numeriche. Consistono in un campione di persone (in questi casi fra i 20 e i 25) che vengono selezionate e fatte discutere fra loro in profondità alla presenza di un moderatore professionista. In questo caso, sia CNN sia CBS con lo spumeggiante Frank Luntz hanno realizzato focus group con elettori indecisi, e in due stati chiave (Florida e Pennsylvania). Il verdetto numerico, che vale quel che vale (perché come dicevamo i focus sono uno strumento qualitativo) è stato nettissimo: 18 partecipanti su 20 hanno dato la vittoria a Clinton nel focus CNN, e 16 su 21 in quello CBS. I focus, comunque, sono uno strumento utilissimo soprattutto per capire perché gli elettori la vedono come la vedono (piccola divagazione: insegno come si fanno i focus group politici all’Università a Bologna e come Quorum siamo fra le agenzie a utilizzarli di più in campagna elettorale, in Italia).

Sentendo i partecipanti dei due focus subito dopo il dibattito di ieri sera, sembra che la candidata democratica sia stata più efficace nel proporre soluzioni oltre che nell’additare i problemi, e che Trump abbia interrotto troppo e sia andato troppo spesso fuori tema.

3) Rilevazioni online, di quelle che fanno i siti dei giornali, senza nessun controllo su chi risponde, su quante volte vota, eccetera. Non valgono niente, non hanno nessuna scientificità né rappresentatività. È raggelante che uno dei più prestigiosi giornali italiani titoli oggi che “i sondaggi sono divisi” portando a giustificazione una di queste rilevazioni senza alcun valore, quella di TIME. Non fateci caso, comunque, e passate oltre.

Visti gli strumenti, rimane da chiedersi quanti voti può spostare un confronto televisivo come quello di ieri sera. Come dicevamo prima, quest’anno per molti fattori i dibattiti saranno importanti, anche perché potrebbero sgonfiare i candidati indipendenti (su tutti Gary Johnson del Libertarian Party e Jill Stein dei Verdi) e consolidare o produrre nuovi frame interpretativi della corsa fra Hillary Clinton e Donald Trump.

Sempre nel sondaggio CNN/ORC (che però come ricordiamo comprendeva un gran numero di intervistati democratici) il 34% si è detto più propenso a votare Clinton dopo il dibattito, il 18% a votare Trump, ma la maggioranza relativa – il 47% – ha dichiarato che il faccia a faccia non avrà effetti sul proprio orientamento di voto. I dati di PPP consegnano un quadro ancora più sfumato, con il 40 per cento più propenso a votare Clinton e il 35 a votare Trump.

Ci sono, però, alcune indicazioni interessanti per rispondere alla domanda “ma quanti voti avrà spostato?” che arrivano dal passato. Innanzitutto, come mostra questo bellissimo grafico twittato da Nate Silver di FiveThirtyEight, negli ultimi trent’anni c’è stata una certa correlazione fra i sondaggi sul vincitore del dibattito e i sondaggi successivi sulle intenzioni di voto: in parole povere, chi va meglio nei dibattiti guadagna qualcosina nei sondaggi dei giorni dopo. Dice Silver che ci si può aspettare un piccolo rimbalzo per Hillary, forse fra i 2 e i 4 punti, in questa settimana.

E poi, se ci basiamo sulla rilevazione CNN, che tradizionalmente sonda gli spettatori del dibattito in tempo reale, il 62% a 27% di gradimento rifilato a Trump ieri sera è uno dei margini più ampi della storia dei dibattiti presidenziali, secondo solo al townhall fra Bush senior e Bill Clinton del 1992 (considerato uno dei confronti più impietosi della storia dei confronti presidenziali) e al primo dibattito fra Romney e Obama di quattro anni fa.

In quell’occasione Romney, a Denver, strapazzò il presidente uscente (che pare avesse pure qualche linea di febbre) e nei giorni successivi migliorò sensibilmente nei sondaggi, passando in una settimana da uno svantaggio di 4 punti a un vantaggio di oltre un punto, anche se oggi The Upshot rileva che almeno un po’ di quel rimbalzo fu un effetto ottico dato dal fatto che in quegli stessi giorni si stava esaurendo il Convention bounce di Obama (cos’è il Convention bounce? Ne parliamo qui).

Poi, comunque – ed è questa una lezione che dovremmo tenere a mente anche stavolta – ci furono altri due dibattiti con Obama, in cui Obama andò bene, e altre cose ancora successero, per cui alla fine Romney, che aveva vinto in scioltezza il primo faccia a faccia, perse le elezioni.

In aggiunta, alcuni degli effetti più importanti di un dibattito televisivo (rafforzare il consenso presso la propria base o segmenti specifici di elettorato, o convincere gli indipendenti e gli indecisi) sono difficili da misurare con un sondaggio che ci dice solo “Bush è risultato più convincente per il 60% e Gore per il 40%”: chi sta in quel 60%? Chi sta in quel 40%? E perché?

Ecco perché, se guardate le storie e i numeri di tutte le ultime presidenziali, comprenderete che i dibattiti sono importanti, ma non sono l’unica cosa che conta.

Lorenzo Pregliasco

Nato nel 1987 a Torino. Si è laureato con una tesi su Obama, è stato tra i fondatori di Termometro Politico, collabora con «l'Espresso» e ha scritto su «Politico», «Aspenia», «La Stampa».
È regolarmente ospite di Sky TG24, Rai News, La7 e interviene frequentemente su media internazionali come Reuters, BBC, Financial Times, Wall Street Journal, Euronews, Bloomberg.
Insegna all'Università di Bologna, alla 24Ore Business School e alla Scuola Holden.
Ha scritto Il crollo. Dizionario semiserio delle 101 parole che hanno fatto e disfatto la Seconda Repubblica (Editori Riuniti, 2013), Una nuova Italia. Dalla comunicazione ai risultati, un'analisi delle elezioni del 4 marzo (Castelvecchi, 2018) e Fenomeno Salvini. Chi è, come comunica, perché lo votano (Castelvecchi, 2019).
È direttore di YouTrend.

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