Una ricerca Censis dimostra come negli ultimi 20 anni l’Italia abbia trascurato le politiche infrastrutturali: e il gap con il resto d’Europa aumenta
C’era una volta l’Italia del boom economico. L’Italia che in pochissimi anni diventò, da paese agricolo, una delle principali potenze economiche del mondo. Un Paese in grado di costruire, in soli otto anni, la più lunga arteria infrastrutturale tutt’ora in servizio: L’A1, meglio conosciuta come l’ “Autostrada del Sole”. Fortemente voluta dai governi democristiani degli anni ’50, l’Autostrada del Sole rappresentò, oltre che un volano per lo sviluppo economico, una vera e propria spina dorsale per l’Italia repubblicana, in grado di ridurre le distanze economico/sociali tra il Nord e il Mezzogiorno.
Mai come oggi però quell’Italia appare tanto distante. Se negli anni ’70 la rete infrastrutturale italiana poteva essere considerata all’avanguardia, negli anni successivi il Belpaese sembra essersi cullato sugli allori e gli interventi volti a modernizzare il paese sono andati scemando. Negli ultimi vent’anni infatti il gap infrastrutturale con il resto d’Europa è andato via via acuendosi, con gli investimenti italiani che appaiono visibilmente insufficienti ed inadeguati se paragonati a quelli degli altri partner europei.
Per quanto riguarda le autostrade (sia con pedaggio che senza), dal 1990 l’Italia ha mostrato un aumento della propria dotazione del 7%, a fronte del 61% della Francia che presentava condizioni di partenza simili alle nostre , e del 171,8% della Spagna, che invece partiva da condizioni molto più arretrate dopo la dittatura franchista.
Discorso simile per le ferrovie veloci. Se agli inizi degli anni ’90 eravamo al secondo posto in Europa, non è bastata la realizzazione della Torino-Napoli per rimanere al passo con i partner commerciali, e ad oggi l’Italia si trova nettamente in ritardo rispetto a Spagna, Francia e Germania.
Le cause che hanno contribuito a mettere in stand by le politiche infrastrutturali sono molteplici, ma hanno avuto inizio nel primi anni ’90 con l’emergere delle problematiche inerenti il debito pubblico, che proprio in quel periodo superava per la prima volta il 100% del PIL. A rincarare la dose ci pensò poi lo scoppio di tangentopoli, che contribuì ad alimentare il clima di sfiducia e malcontento dell’opinione pubblica nei confronti della classe politica, specialmente per quanto riguardava interventi che richiedevano ingenti quantità di denaro pubblico. Secondo i dati di una ricerca condotta dal Censis, dal 1990 al 2010 gli investimenti in infrastrutture sono diminuiti (in termini reali) del 35%, a fronte di un aumento del PIL del 21,9%.
Anche le opere esistenti soffrono il declino delle politiche infrastrutturali italiane. Le opere pubbliche realizzate negli anni passati infatti, risentono notevolmente del calo di investimenti previsti per il settore, con gli interventi volti al mantenimento delle dotazioni esistenti sempre meno frequenti ed efficaci.
A risentire di tale lassismo è, in primo luogo, la competitività economica del Paese: un efficiente sistema infrastrutturale è in grado di incentivare in maniera determinante i portatori di capitale ad investire in un determinato contesto, sia perché avrebbero la possibilità di ridurre al minimo i costi legati al trasporto merci sia perché i lavoratori ottimizzerebbero i tempi di spostamento casa-lavoro. Secondo il rapporto del World Economic Forum sulla competitività economica (Global Competitiveness Report), l’Italia si troverebbe al 48° posto su 139 economie prese in considerazione, con la Germania al 5° posto, il Regno Unito al 12°, la Francia al 15° e la Spagna al 42°. Analizzando nel dettaglio i singoli fattori che determinano tale graduatoria la situazione si fa ancora più preoccupante: l’Italia è al 73° posto per la qualità infrastrutturale complessiva.
Per invertire tale tendenza, le istituzioni italiane hanno tentato un colpo di reni varando la Legge n°443 del 2001, meglio conosciuta come Legge Obiettivo. Tale legge si promette di stabilire procedure e modalità di finanziamento per la realizzazione di grandi infrastrutture definite strategiche per l’Italia. Attraverso questa legge non vengono indetti concorsi o selezioni tra vari progetti, ma viene effettuata una scelta puramente politica su quali opere considerare strategiche e di preminente interesse nazionale, e quindi meritevoli di investimento tramite accordi tra le amministrazioni locali e l’amministrazione centrale. Una sorta di “corsia preferenziale” attraverso cui rendere più immediato il finanziamento e la realizzazione di opere pubbliche. Questo sistema però ha incontrato numerose criticità, dovute in particolar modo alle forti pressioni politiche arrivate dai governi locali per inserire opere nel “Programma Infrastrutture Strategiche” (il programma di attuazione della Legge Obiettivo) e alla conseguente difficoltà nel trovare copertura per tutte le opere inserite nel programma. Allo stato attuale le infrastrutture considerate strategiche sono 390 per un costo complessivo di 367,4 miliardi di euro (Nel 2004 le opere strategiche erano 228). Con una proliferazione talmente elevata di opere considerate strategiche (proliferazione dovuta essenzialmente all’esigenza di mantenimento del consenso elettorale), anche la copertura economica del Programma è andata via via impoverendosi. Attualmente le risorse finanziarie ammontano a 150 miliardi, a fronte di un fabbisogno di oltre 367. Guardando allo stato di avanzamento del Programma alla data del 30 aprile 2011 si evince che le opere portate a compimento rappresentano il 9,3% del totale previsto.
Oltre al progressivo incremento delle opere considerate strategiche, sorgono anche altre problematiche che vanificano gli intenti della Legge Obiettivo, e cioè le incertezze riguardanti la titolarità degli interventi, dovuta in particolar modo ad una ripartizione poco chiara di competenze tra Stato e Regione, e l’incremento dei costi e dei tempi di realizzazione dovuto ai contenziosi negli appalti.
(Dati estrapolati dalla ricerca Censis “Tornare a desiderare le infrastrutture”)
Commenta