Le elezioni politiche 2018 di domenica scorsa hanno avuto un esito clamoroso. Non tanto per l’assenza di una maggioranza (che anzi era data alla vigilia come lo scenario più probabile), quanto per alcuni elementi inattesi.
Facciamo allora un recap dei tanti spunti, molti dei quali saranno analizzati in un articolo ad hoc in questi giorni, e che saranno poi compresi in un apposito Dossier dedicato.
L’affluenza
Contrariamente alle aspettative, l’affluenza ha sostanzialmente tenuto, sfiorando il 73% sia alla Camera che al Senato. Alla vigilia si parlava di un calo molto più marcato rispetto al 2013, quando si era attestata poco sopra il 75% in entrambe le Camere. Invece la flessione è stata di poco più di 2 punti, un calo quasi “fisiologico” se si considera che nel 2013 si votò anche di lunedì. Rispetto al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 – ultima consultazione nazionale con un forte significato politico – l’affluenza è addirittura aumentata di oltre 4 punti (in quel caso fu del 68,5%).
Risultati: un’alta volatilità
I risultati sono stati dirompenti: il Movimento 5 Stelle ha guadagnato 7 punti percentuali (e 2 milioni di voti) rispetto al 2013, il Partito Democratico ha perso 6 punti, la Lega (non più Nord) ha fatto un balzo in avanti di oltre il 13%. Guardando al dato delle coalizioni, il centro-destra ha guadagnato circa 8 punti, il centro-sinistra ne ha persi quasi 7. L’area a sinistra del PD, considerando il dato delle due liste Liberi e Uguali e Potere al Popolo, si ferma al 4,5% – un punto in meno rispetto al 5,5% raccolto da SEL e Rivoluzione Civile nel 2013.
Queste variazioni si traducono in un’enorme volatilità: la volatilità è una stima (minimale) di quanti elettori hanno votato un partito diverso rispetto all’elezione precedente. Alle Politiche 2018 tale indice ha toccato un incredibile 28%, il terzo dato più alto nella storia repubblicana: per dare un’idea di quanto queste elezioni siano state dirompenti, basti dire che il primato è detenuto dalle Politiche 2013 con il 39% (quando due liste al debutto come M5S e Scelta Civica da sole ottennero il 33% dei voti) e al secondo posto ci sono le Politiche del 1994 con il 36,7% (quando i nuovi partiti si chiamavano Forza Italia, Alleanza Nazionale, La Rete…).
Il fatto che per due elezioni di fila la volatilità raggiunga un livello così elevato ci dice una cosa molto semplice: l’elettorato non è mai stato così “liquido”. Nulla, nemmeno un risultato clamoroso come quello del 40,8% del PD alle Europee 2014, garantisce che il consenso resti su livelli alti negli anni (o nei decenni) a venire, come succedeva nella Prima Repubblica. La fedeltà partitica non esiste più.
Un approfondimento ad hoc sarà dedicato proprio ai flussi elettorali. Da questi si evince, ad esempio, che rispetto al 2013 il PD e Forza Italia (ex PDL) hanno perso quasi la metà dei propri elettori, mentre M5S e Lega ne hanno invece riconfermati più dell’80% – oltre ad attrarne di nuovi da altri partiti.
Una nuova geografia elettorale
Questi risultati così dirompenti si traducono in un radicale mutamento della geografia politica del nostro Paese. Per usare le parole del nostro Matteo Cavallaro, si tratta della terza “rivoluzione geografica” in soli 5 anni: nel 2013 l’ingresso prepotente del M5S sulla scena spezzò il tradizionale bipolarismo caratteristico sia della Prima sia della Seconda Repubblica, mentre nel 2014 il PD si impose come partito nazionale, arrivando primo in tutte le regioni e in ben 106 province su 111.
Questa volta, le novità sono essenzialmente due: primo, l’egemonia del Movimento 5 Stelle nelle regioni meridionali, dove arriva in certi casi (Campania e Sicilia) a sfiorare un incredibile 50%. Secondo, la scomparsa delle “regioni rosse”, una certezza che pareva granitica e che durava praticamente da un secolo: il centrosinistra è primo solo in Toscana. In Emilia-Romagna e Umbria cede il primato al centrodestra, nelle Marche al M5S. L’avanzata del centrodestra è trainata dalla Lega, che in queste regioni ottiene risultati impressionanti (tra il 17 e il 20%) e fa un deciso passo avanti nella strategia salviniana della “nazionalizzazione” di un partito non più arroccato solo nelle regioni settentrionali.
Impressionante è poi il dato del voto alle coalizioni a seconda del numero di abitanti nei comuni. Il centrosinistra risulta competitivo solo nei centri urbani di maggiori dimensioni, mentre il centrodestra prevale nettamente nei comuni più piccoli e il Movimento 5 Stelle ottiene i suoi migliori risultati nei comuni di fascia intermedia (fino a 100.000 abitanti). Ritorna in modo prepotente un cleavage che non era mai scomparso, quello tra città e campagna, e in questo l’Italia somiglia sempre più ad altri sistemi politici come quello statunitense o quello francese.
Camera e Senato: mai così simili
Altra novità importante di queste elezioni: i risultati di Camera e Senato sono quasi identici. Le discrepanze maggiori nel voto tra le due Camere riguardano Forza Italia e PD, che ottengono al Senato lo 0,4% in più rispetto a quanto raccolto alla Camera. Da un lato, questo potrebbe essere l’effetto della estrema omogeneizzazione del sistema di elezione per i due rami del Parlamento previsto dal Rosatellum. Dall’altro – dal momento che al Senato non votano i 18-24enni che invece votano alla Camera – si registra uno scostamento più contenuto tra il voto dei più giovani e quello del totale della popolazione. Secondo il sondaggio Quorum/YouTrend per Sky, infatti, tra gli under 25 che hanno votato solo alla Camera il M5S è il primo partito con il 39,3% (7 punti in più della media nazionale), la Lega è al secondo posto col 21,2% (+3,5% dalla media) davanti al PD (15,4%, meno 3,3%), mentre il saldo peggiore ce l’ha Forza Italia (7% contro 14%).
Nel 2013 le disparità erano state molto maggiori: tra i giovani di allora, il M5S raccolse il 19% in più rispetto alla media, il PD andò peggio del 9%, il PDL dell’8% (dati ITANES).
I partiti: vincitori e sconfitti
Vincitori e sconfitti di questa tornata sono facilmente identificabili. Partiamo dai primi: Movimento 5 Stelle e Lega Nord. Il primo si conferma un partito nazionale, ma sbilanciato sul Sud. Dopo l’exploit del debutto, nel 2013, il M5S aveva subito una flessione alle Europee 2014. Non era scontato che invertisse la tendenza e addirittura che superasse il 30%. Come ha notato Vincenzo Emanuele, si tratta del primo caso in Europa di un partito che alla sua seconda partecipazione nazionale aumenta i suoi voti invece di diminuirli, dopo aver “fatto il botto” nella sua prima apparizione.
La Lega è l’altro vincitore. Della sua “nazionalizzazione” abbiamo già accennato. Ma vale la pena soffermarsi su come il 17% ottenuto da Salvini sia di gran lunga il miglior risultato nella storia del partito che fu di Umberto Bossi. Il precedente record, per dire, era il 10% ottenuto nel 1996, poi replicato alle Europee 2009. Per la prima volta in un’elezione nazionale, la Lega è il primo partito del centrodestra. Non era mai successo dal 1994, cioè da quando esiste il centrodestra come entità politica-elettorale. Non solo: pur essendo il terzo partito in termini di voti, la Lega si ritrova ad essere il secondo gruppo parlamentare sia alla Camera che al Senato, in virtù della buona performance del centrodestra nei collegi uninominali previsti dal Rosatellum, in particolare nei collegi settentrionali.
Gli sconfitti sono tre: il Partito Democratico, Forza Italia e la sinistra.
Il PD ottiene il peggior risultato della sua storia, un 18,7% che è persino peggiore del dato del solo PDS negli anni ’90, e per di più meno di 4 anni dopo lo stratosferico 40,8% delle Europee 2014. Dato il pessimo rendimento della coalizione nei collegi uninominali (28 collegi vinti alla Camera, 14 al Senato), i democratici sono solo il terzo/quarto partito per numero di eletti, giocandosi il podio con Forza Italia, che ha ottenuto quasi il 5% dei voti in meno.
Proprio Forza Italia è però il secondo “sconfitto eccellente” delle Politiche 2018: il partito di Silvio Berlusconi viene scavalcato dalla Lega come prima forza del centro-destra e si ritrova ad essere virtualmente irrilevante nella scelta del prossimo governo.Una situazione completamente ribaltata rispetto i pronostici della vigilia, quando si pensava che Berlusconi sarebbe stato quasi certamente il king maker in qualunque scenario: sia che il centro-destra avesse ottenuto la maggioranza (con Forza Italia primo partito, come sembravano annunciare i sondaggi) sia che invece si fosse rivelato necessario un accordo di grande coalizione con il PD.
La sinistra di Liberi e Uguali incassa una cocente delusione. Si ripete un copione ormai familiare a sinistra: una scissione, o comunque una rottura, con la parte moderata del fronte progressista; la nascita di un soggetto unitario, il cui potenziale inizialmente è stimato intorno al 10%; una campagna elettorale incolore; e un risultato finale (in questo caso il 3,3%) ben al di sotto delle – peraltro mediocri – aspettative. LeU non fa molto meglio della Sinistra Arcobaleno che nel 2008 restò fuori dal Parlamento: entrerà sia alla Camera che al Senato grazie ad una soglia di sbarramento più generosa di quella che c’era 10 anni fa (il 3 per cento invece del 4), ma in entrambi i casi non avrà abbastanza parlamentari per costituire gruppi autonomi. I risultati estremamente negativi sia del PD che dei “duri e puri” di Potere al Popolo (poco sopra l’1%, peggio della lista di Ingroia nel 2013) ci inducono a escludere che LeU sia rimasta vittima della “tenaglia” costituita, da un lato, dal richiamo al “voto utile” e, dall’altro, dalla competizione a sinistra. Semplicemente, LeU non è stata un’opzione sufficientemente credibile per gli elettori.
Colpa del sistema elettorale?
Alla sua prima prova, il tanto contestato Rosatellum sembra aver retto meglio del previsto. Non ha “fabbricato” una maggioranza parlamentare, ma questo non è ascrivibile ai demeriti della legge: con una situazione di tripolarismo, per quanto imperfetto (i tre poli hanno ricevuto rispettivamente il 37, 32 e 23 per cento dei voti) era impensabile ottenere una maggioranza in una votazione a turno unico, con qualsiasi sistema elettorale (come dimostreremo nelle prossime ore).
Più complessa è la valutazione di alcuni aspetti tecnici che alla vigilia del voto costituivano delle vere e proprie incognite: il numero di voti nulli ad esempio non è stato tale da invalidare il voto di una parte significativa di elettori (come alcuni esperimenti facevano temere alla vigilia). L’effetto dei candidati di collegio è da valutare in un’analisi quantitativa ad hoc, ma non sembra aver avuto un ruolo preponderante. Certamente non lo ha avuto nel “trascinare” verso l’alto il voto delle due coalizioni di centrosinistra e centrodestra.
Questi sono solo alcuni dei tanti elementi di analisi e riflessione, su cui ci soffermeremo nei giorni a venire in diversi articoli di approfondimento, nonché nel nostro Dossier speciale, di prossima pubblicazione. Non perdeteli!
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