Il 23 marzo scorso il Consiglio dei ministri ha approvato, «salvo intese», il disegno di legge di riforma del mercato del lavoro. In 26 pagine e dieci punti, il documento presentato dalla Ministra del Lavoro, Elsa Fornero, e approvato dal Consiglio dei ministri, ha l’obiettivo di favorire una distribuzione più equa delle tutele dell’impiego, contenendo i margini di flessibilità progressivamente introdotti negli ultimi vent’anni e adeguando all’attuale contesto economico la disciplina del licenziamento individuale. C’è un nuovo assetto degli ammortizzatori sociali e delle relative politiche attive, ci sono elementi di premialità per l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili. L’obiettivo è anche quello di contrastare con maggiore incisività l’elusione degli obblighi contributivi e fiscali. Sono coinvolti gli istituti contrattuali, le tutele dei lavoratori nel caso di licenziamento illegittimo, la flessibilità e le coperture assicurative, i fondi di solidarietà, l’equità di genere e le politiche attive.
Il Governo sottolinea in una nota che “Si tratta di una riforma lungamente attesa dal Paese, fortemente auspicata dall’Europa, e per questo discussa con le parti sociali con l’intento di realizzare un mercato del lavoro dinamico, flessibile e inclusivo, capace cioè di contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione di qualità, di stimolare lo sviluppo e la competitività delle imprese, oltre che di tutelare l’occupazione e l’occupabilità dei cittadini. Il disegno di legge è il frutto del confronto con le parti sociali. Ne emerge una proposta articolata che, una volta a regime, introdurrà cambiamenti importanti”. Il progetto governativo non è ancora disponibile in un testo articolato e quindi emendabile e, date le contestazioni espresse dal Pd, soprattutto con riferimento alla norma sui licenziamenti individuali per motivi economici, difficile poter capire sin d’ora, al di là delle ripetute esternazioni del Premier Monti e dal Ministro Fornero, fin dove l’esecutivo potrà resistere sul merito del progetto di riforma e quanto, alla fine, quest’ultimo scadrà in una merce di scambio tra le parti politiche interessate, per mettere un punto sulle tante questioni ancora aperte e dibattute (Rai, giustizia, responsabilità civile dei giudici, etc).
Intanto, la scelta di presentare al Parlamento la riforma sotto forma di un disegno di legge implica un’apertura al dialogo che, nonostante la mobilitazione verso il 13 aprile per uno sciopero unitario di Cgil, Cisl e Uil, come riconosce la stessa Segretaria Camusso, vuole significare che il Parlamento è ancora sovrano: lì sono possibili modifiche e solo in quella sede verranno assunte le decisioni ultime in tema di mercato del lavoro. Come spiega in un’intervista il Sen. Castro, esponente Pdl e membro della Commissione Lavoro, il disegno di legge dovrà essere affrontato come se avesse le caratteristiche di necessità ed urgenza proprie di un decreto-legge, di modo che possa giungere ad approvazione definitiva prima dell’estate, ovvero entro il mese di luglio. Il disegno di legge è comunque atteso alle Camere appena dopo il rientro del Presidente del Consiglio in Italia, dunque ad inizio della prossima settimana, ed il Ministro dei Rapporti col Parlamento, Pietro Giarda, fa sapere che non gli è stato ancora sottoposto alcun testo e non è detto che l’iter legislativo inizi da Palazzo Madama.
La discussione politica è comunque già iniziata e la maggior parte dell’attenzione si concentra sulla tanto contestata disciplina dei licenziamenti individuali. Nella bozza di riforma del mercato del lavoro approdata in Cdm, si legge che nella lettera di licenziamento sarà obbligatoria l’indicazione dei motivi. Il testo prevede “tre regimi sanzionatori” a seconda che il licenziamento individuale sia valutato dal giudice discriminatorio, per motivi disciplinari o economici. In particolare, nella riforma “si prevede che il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro debba essere disposto dal giudice nel caso di licenziamenti discriminatori o in alcuni casi di infondatezza del licenziamento disciplinare. Negli altri casi, tra cui il licenziamento per motivi economici- si legge nella nota di Palazzo Chigi – il datore di lavoro può essere condannato solo al pagamento di un’indennità. Particolare attenzione è riservata all’intento di evitare abusi”. È previsto anche un rito procedurale abbreviato per le controversie in materia di licenziamenti. Ciò che più desta preoccupazione da parte sindacale e democratica concerne i licenziamenti economici: in questo caso, nella bozza si prevede “l’esperimento preventivo di una rapida procedura di conciliazione innanzi alle direzioni territoriali del lavoro, non appesantita da particolari formalità, nell’ambito della quale il lavoratore potrà essere assistito anche da rappresentanti sindacali, e potrà essere favorita la conciliazione tra le parti”. Inoltre, per evitare che i licenziamenti oggettivi o economici siano “strumentali” dissimulando motivazioni “di natura discriminatoria o disciplinare”, se il lavoratore lo prova, “il giudice applica la relativa tutela”, dunque eventualmente anche il reintegro.
Ad assumere importanza decisiva ai fini dell’intensità della tutela cui il lavoratore avrà diritto è, come si legge a pagina 10 della bozza di riforma, “la motivazione attribuita al licenziamento dal datore di lavoro”. Dunque, laddove il licenziamento fosse manifestamente illegittimo, se il datore di lavoro addurrà motivazioni disciplinari, allora il giudice potrà reintegrare il lavoratore; diversamente, se il datore sceglierà di sottoscrivere la lettera di licenziamento invocando ragioni di ordine economico, seppure queste non fossero legittime a fronte dell’effettiva inesistenza di giustificato motivo, il giudice potrà solo accordare un indennizzo al lavoratore, privato in tal modo di qualsivoglia tutela nel suo diritto al reintegro, ovvero diritto al lavoro. Se legittima appare l’opzione del Governo di passare da un sistema che prevede sempre il reintegro ad un sistema maggiormente flessibile in cui l’intensità della tutela è affidata al giudice del caso concreto, così come formulato nella bozza, la nuova disciplina sui licenziamenti individuali rischia di porsi in contrasto con principi fondamentali di ordine costituzionale, primo fra tutti l’articolo 3, che sancisce il principio di uguaglianza, sostanziale e non solo formale, tra tutti i cittadini.
In attesa di poter leggere la proposta come articolata nel disegno di legge, si pone nel frattempo il capitolo tutto dedicato al pubblico impiego: la domanda, infatti, è se anche a questi si applichi o meno la nuova disciplina sui licenziamenti individuali. I sindacati plaudono alla presa di posizione del Ministro della Pubblica Amministrazione, Filippo Patroni Griffi, che in una lettera al Messaggero segnala che il licenziamento per motivi economici non “può trovare applicazione nel pubblico”, in quanto in questi casi “c’è una disciplina ad hoc“: nel caso di specie scattano dunque una serie di procedure “che portano alla mobilità dei lavoratori presso altre amministrazioni e alla eventuale collocazione in disponibilità con trattamento economico pari all’80% dell’ultimo stipendio per due annualità”. Sta di fatto però che, a sentire l’economista Tito Boeri, le leggi che hanno introdotto i licenziamenti individuali nel settore pubblico prevedono che valga comunque lo stesso regime in vigore per i dipendenti privati. La riforma, quindi, “inevitabilmente coinvolge i lavoratori pubblici, a meno che non venga scritto esplicitamente che non si applica a loro”, attraverso la previsione di una specifica disposizione derogatoria.
Discorso ancora diverso e non meno importante è quello che riguarda la condizione dei cosiddetti esodati, infelice espressione fattiva del costo sociale del rigore economico imposto dall’UE. Si tratta di dipendenti incentivati a uscire dal mercato del lavoro con la prospettiva di poter approdare alla pensione in un numero certo di anni: licenziamenti concordati in cui un certo numero di lavoratori ha scelto di rimanere disoccupato in cambio di una quota di reddito sufficiente ad accompagnarli alla condizione pensionistica. Chiaramente tutto ciò avveniva con le vecchie regole del sistema previdenziale, ovvero prima che il Governo Monti portasse l’età minima per la pensione a 66-67 anni. Così, quei lavoratori si son ritrovati a dover affrontare uno “scalone” che gli ha imposto una prospettiva di vita, non breve, da passare senza reddito, in quanto gli incentivi previsti erano tarati per periodi di due-tre anni e ad oggi risultano assolutamente non sufficienti per coprire un periodo di cinque-sei anni. Secondo alcune stime, il problema riguarda una platea che oscilla tra 100 e 350mila persone e la differenza è data dal conteggio o meno dei lavoratori “autorizzati ai contributi volontari” che costituiscono una parte cospicua. Per tutti i casi presi in considerazione dal Governo al momento della riforma (lavoratori in mobilità, contributi volontari, in regime di Fondo di solidarietà) il “Salva Italia” aveva individuato deroghe e stabilito un finanziamento, ma nell’elenco mancava la tipologia specifica dei lavoratori incentivati all’esodo, aggiunti solo con il “mille-proroghe”, senza che i finanziamenti fossero rivisti. Chiaro è che oggi le risorse non bastano.
Intervistata alla trasmissione Report di Milena Gabanelli, il Ministro, forse non troppo consapevole del dramma vissuto dagli esodati, forte nel suo ruolo rigorista, ha dichiarato “Siamo stati chiamati a fare un lavoro sgradevole non a distribuire caramelle”. Ad ogni modo, alle centinaia di migliaia persone che si trovano oggi senza lavoro e senza pensione, il Ministro Fornero ha promesso una soluzione entro il 30 giugno, avanzando l’ipotesi di rientro al lavoro. Si tratta però di una eventualità solo accademica perché, stando a quanto raccontano i sindacati relativamente a Poste, ad esempio, non esiste alcuna possibilità di ripensamento per chi ha già firmato l’uscita incentivata e ha ultimamente chiesto di rimanere in servizio”: al massimo, l’azienda potrà rendersi disponibile per la firma di un Avviso comune con i sindacati per chiedere al Governo di estendere da 24 a 36 mesi la copertura contributiva e di utilizzare il Fondo di solidarietà interno per un sostegno al reddito. Sempre a Report, la Fornero parla poi di una seconda eventuale soluzione: il sussidio di disoccupazione, ovvero la nuova “Aspi”, che però copre solo 12 mesi, 18 per gli over 55, e di fatto può bastare a chi rimane scoperto per un anno e mezzo, mentre per gli altri avrebbe bisogno di una deroga.
Nell’attesa di leggere il contenuto esatto del disegno di legge di riforma del mercato del lavoro, il Sole 24 Ore ne sintetizza il contenuto nel suo classico “abc” del provvedimento. Di seguito, una sintesi di YouTrend sulle innovazioni previste:
- L’apprendistato, inteso nelle sue varie formulazioni e platee , diviene il “trampolino di lancio” verso la maturazione professionale dei lavoratori.
- Via libera al regolamento che definisce termini e modalità di attuazione della disciplina delle cosiddette “quote rosa” alle società controllate da pubbliche amministrazioni.
- Sul precariato, nell’intento di contrastare l’eccessiva reiterazione dei contratti a termine, si prevede che la pausa tra un contratto e l’altro salga a 90 giorni, mentre l’intervallo di tempo dopo il quale un contratto a termine superiore ai sei mesi può essere confermato per la seconda volta senza che ciò comporti l’assunzione a tempo indeterminato sale da 20 a 90 giorni.
- Per contrastare il fenomeno delle cosiddette dimissioni in bianco a favore di tutti i lavoratori (per quanto il fenomeno riguardi prevalentemente le lavoratrici), s’introducono modalità semplificate e senza oneri per il datore di lavoro e il lavoratore e il rafforzamento (con l’estensione sino a tre anni di età del bambino) del regime della convalida delle dimissioni rese dalle lavoratrici madri.
- Paventando di favorire una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli, il Governo introduce il congedo di paternità obbligatorio per soli 3 giorni.
- La riforma istituisce poi un fondo di solidarietà per la tutela dei lavoratori nei settori non coperti da cassa integrazione straordinaria. L’istituto – spiega il governo – offre un’integrazione salariale in caso di riduzione dell’orario di lavoro durante una congiuntura sfavorevole, consentendo di adeguare rapidamente l’orario di lavoro al calo di domanda, preservando però i singoli rapporti di lavoro e il loro contenuto di professionalità e di investimento.
- Poiché la riforma del mercato del lavoro “crea una cornice giuridica per gli esodi” dei lavoratori anziani “con costi a carico dei datori di lavoro”, nella bozza del Governo si legge che “A tal fine è prevista la facoltà per le aziende di stipulare accordi con i sindacati maggiormente rappresentativi, finalizzati a incentivare l’esodo dei lavoratori anziani“.
- La riforma del lavoro introduce elementi di premiali verso le imprese che instaurano rapporti di lavoro più stabili e contrasta gli usi elusivi degli obblighi contributivi e fiscali degli istituti contrattuali.
- La riforma del mercato del lavoro punta sulle politiche attive: formazione continua dei lavoratori, riqualificazione dei lavoratori espulsi, qualificazione professionale dei giovani che entrano nel marcato del lavoro. I target delle politiche attive e i servizi per l’impiego sono: giovani al primo ingresso, lavoratori già inseriti o sospesi in via temporanea, lavoratori espulsi o da ricollocare, soggetti con caratteristiche di difficile occupabilità e inattivi. Stato e Regione opereranno di concerto sulle politiche attive “adattandole alle mutate condizioni del contesto economico e assegnando loro il ruolo effettivo di accrescimento dell’occupabilità dei soggetti e del tasso di occupazione del sistema”.
- I nuovi ammortizzatori sociali saranno basati sull’Aspi, nuova indennità di disoccupazione che durerà da 12 a 18 mesi (per gli over-55) e andrà a regime dal 2016. La transizione partirà l’anno prossimo.
- Sul contrasto del lavoro irregolare degli immigrati, la bozza prevede che il lavoratore immigrato che abbia perso il posto, possa essere iscritto nelle liste di collocamento per il periodo in cui sia ammesso a una prestazione per disoccupazione, non vendendosi con ciò revocato il permesso di soggiorno.
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