A Palazzo Carpegna, nella sede della Commissione Industria del Senato, i lavori sono proseguiti durante tutto il weekend e, con tempi strettamente contingentati, si è proceduto con l’esame del decreto liberalizzazioni. La pressione a far presto senza indietreggiare di fronte ai veti di lobby e partiti ha spinto il comitato ristretto relatori-governo a cercare accordi separati prima di sottoporre i testi ai senatori della Commissione.
I lavori sono inoltre proseguiti prestando attenzione all’invito rivolto dal Presidente Napolitano a non “sommergere” il testo della legge di conversione del decreto con richieste assolutamente fuori tema e non presenti nella versione originaria del decreto emanato per motivi di necessità ed urgenza. A colorare il quadro, ci sono poi le richieste che vengono dall’Europa e, in particolare, dall’Osce che, dopo le raccomandazioni di Draghi, ha chiesto come “priorità” all’Italia di ridurre le “barriere normative alla concorrenza” nei settori dell’industria, delle professioni, del commercio, della televisione, dell’energia e dei servizi locali, oltre che “ammorbidire la protezione del lavoro sui contratti standard”, ossia i posti fissi.
Ad ogni modo, è ormai chiaro che i lavori in Commissione Industria, in sede referente, si trascinano dietro una scia di polemiche e lasceranno inevitabilmente l’amaro in bocca a tanti. E sul testo “possibile” della Commissione Industria, se le mediazioni faticosamente cercate reggeranno alla prova del voto, il Governo è pronto a mettere la fiducia questa stessa settimana. L’intento è quello di lasciare alla Camera una ventina di giorni – ma assai meno di lavori effettivi – per la ratifica finale del provvedimento entro il 24 marzo, considerando però la possibilità di un ritorno lampo al Senato prima della scadenza, se la Camera modificherà ulteriormente il testo. Intanto domenica sono stati approvati 54 articoli, riscattando d’un colpo la giornata di venerdì, segnata da intensi negoziati (dentro la maggioranza e con il governo) e dall’assedio delle lobby. Ma sui capitoli più delicati – professioni, farmacie, tesoreria unica, taxi – il voto è comunque rinviato a lunedì in attesa del parere della commissione Bilancio.
Nella ventina di articoli ancora da approvare c’è anche la nuova Ici/Imu sulla Chiesa che ha scatenato molte reazioni, ma solo cinque emendamenti (tutti a nome Salvatore Piscitelli del gruppo Coesione nazionale): un fatto indicativo per cui la norma, a firma dello stesso Monti, non dovrebbe subire particolari modifiche. L’emendamento del Governo, presentato in commissione Industria, istituisce, a partire dal 2013, il pagamento dell’imposta sugli immobili anche per gli enti non commerciali con attività invece commerciali, ivi compresa la Chiesa. Dell’esenzione dal pagamento dell’Imu saranno esclusi invece gli immobili che, per intero, non sono destinati ad attività commerciali, come quelli che ospitano centri di assistenza, sportivi, sanitari, culturali. Vista la crisi economica senza precedenti che l’Italia sta attraversando, era difficile immaginare che i beni immobili della Chiesa riuscissero a rimanere esenti dall’Imu. Ora, se chiaramente appare “saggia, ragionevole, molto determinata” la decisione di far pagare l’Imu su ex conventi trasformati in hotel nel cuore di grandi città, in molti auspicano un’altrettanto ragionevole e determinata scelta rispetto all’eventualità di applicare l’Imu al comparto del non-profit cattolico, che svolge un ruolo di sussidiarietà nei confronti dello Stato.
Via libera in Commissione anche a una serie di articoli sul rafforzamento della class action e sull’imposizione di multe salatissime per i professionisti che ricorrono a clausole vessatorie nei loro contratti con i clienti. Chi non rispetta le norme contro le clausole vessatorie nei contratti stipulati dai professionisti con i clienti, stabilisce il testo, pagherà da 2.000 a 50.000 euro di multa. Sono state poi accolte, nell’ambito di un emendamento presentato dal Governo, molte delle richieste avanzate da parte dei professionisti. Il compenso del professionista dovrà essere pattuito e sarà necessario “un preventivo di massima”; allo stesso tempo, salta l’obbligo del preventivo scritto su richiesta del cliente, con conseguente eliminazione dell’“illecito disciplinare” ad esso legato. Ancora, si prevede che i tirocinanti lavoreranno gratis i primi sei mesi, poi potranno contare su un rimborso spese “concordato forfettariamente”.
Nonostante ciò, i professionisti si sentono schiacciati da quella che definiscono un’aggressione mediatica e politica nei loro confronti chenegli ultimi mesi li avrebbe dipinti soprattutto come casta di privilegiati. Così gli avvocati scendono in piazza contro le liberalizzazioni definite “inutili e controproducenti”: due giorni di sciopero dei legali sono stati infatti proclamati sia dall’Organismo unitario dell’Avvocatura che dall’Unione dei penalisti. Lo sciopero, spiega l’Oua, è un modo per esprimere l’indignazione della categoria a sostegno di una “riforma e modernizzazione della macchina giudiziaria e della professione forense”. Durante l’astensione – che potrebbe causare problemi al regolare svolgimento di molti processi e portare all’occupazione “virtuale” di alcuni Tribunali – l’Oua deciderà ulteriori iniziative di protesta, nonché la partecipazione alla manifestazione unitaria di tutti i professionisti: il Professional Day fissato per il prossimo 1° marzo a Napoli – una teleconferenza, trasmessa in diretta da ClassCnb, sul Canale 507 di Sky, e dal sito www.italiaoggi.it, riunirà virtualmente 150 assemblee sparse su tutto il territorio nazionale.
A non scioperare saranno invece quelli dell’Unione Giovani Avvocati Italiani: l’Unione in una nota bolla infatti come “inutile e controproducente” (sic!) lo sciopero indetto dalle altre associazioni forensi “contro il pacchetto liberalizzazioni delle professioni incluso nel decreto “Cresci Italia””. Per loro, “dato il momento di disastro economico in cui versa l’Italia”, l’astensione rappresenta “un autentico autogol”. I giovani avvocati, prosegue la nota, avrebbero volentieri scioperato per altri obiettivi, come la “diminuzione dell’invasività degli ordini sotto il profilo dell’eliminazione delle ingenti tasse annuali dovute localmente” o per l’“eliminazione della formazione coattiva gestita dagli ordini”.
A favore dei giovani, invece, la norma che semplifica e rende gratuita l’apertura di società a responsabilità limitata per gli under 35. La precisazione, relativa all’emendamento al decreto legge liberalizzazioni presentato dai relatori, arriva da fonti parlamentari. Il Consiglio nazionale del notariato dovrà vigilare sulla “corretta e tempistica applicazione delle disposizioni” dell’articolo da parte dei notai e “’pubblicare ogni anno i relativi dati”. Torna così in gioco il notaio per la costituzione delle srl semplificate dei giovani under, 35 ma non ci saranno spese. Via libera anche all’articolo che prevede l’aumento del numero dei notai e il rafforzamento della concorrenza nei distretti. La commissione Industria del Senato ha approvato la norma con una modifica, a prima firma Finocchiaro (Pd), che, come spiega il relatore, Filippo Bubbico (Pd), darà “certezza sui tempi di definizione dei concorsi”, che dal 2015 diventeranno annuali.
Quanto alle farmacie, “È giusto alzare la soglia del numero di abitanti per l’apertura di nuove farmacie”, afferma la relatrice Simona Vicari (Pdl), “perché l’attuale tetto, sommato alle altre disposizioni sulle aperture nelle stazioni ferroviarie, aeroporti, porti, autostrade, alza il numero complessivo delle nuove aperture e rischia di squilibrare il sistema”. Sono stati infatti presentati emendamenti del Pd e del Pdl su questo stesso punto per arrivare a una farmacia ogni 3.500-3.800 abitanti. Il Presidente della commissione, Cesare Cursi è d’accordo, ma il Governo non sembra disposto ad alzare l’asticella oltre i 3.300 abitanti – quota che comporterebbe circa il 10% in meno di nuove aperture. In alternativa, al fine di garantire ricadute positive sui prezzi per i consumatori, secondo fonti di Palazzo Chigi, il Governo è pronto all’apertura di 5.000 farmacie in più nelle grandi città, anche facendo scattare il maxi-emendamento con voto di fiducia. Irrisolto poi il nodo dei parafarmacisti, ma si discute sull’eliminazione del vincolo dei 12.500 abitanti per i farmaci di fascia C, sulle quote riservate ai parafarmacisti e sulla possibilità di vendere farmaci veterinari e galenici. Sul “delisting” dei farmaci di fascia C, mercato non di poco conto (3 miliardi l’anno) e che, quindi, alimenta non pochi interessi, si deciderà comunque entro lunedì o al massimo martedì mattina.
In materia di taxi, rimane l’impianto dei relatori: la decisione sull’incremento delle licenze delle “auto bianche” è attribuita ai sindaci, in conformità a direttive della nuova Autorità per i Trasporti la quale, se i Comuni non le applicheranno, potrà anche ricorrere al Tar. I compiti dell’Authority potranno essere rafforzati con più stringenti poteri sostitutivi, ma il nodo è ancora da sciogliere. La modifica al testo non è stata ancora votata in Commissione, ma ha suscitato le reazioni e le proteste di consumatori e parte dei sindacati, secondo cui il Governo “ha ceduto alla lobby dei taxisti”. Nel testo presentato dai relatori, inoltre, si stabilisce che per i taxi è consentito l’esercizio dell’attività anche al di fuori dei Comuni che hanno rilasciato la licenza, previo accordo con i sindaci dei Comuni interessati. Il Collegio dell’Autorità sarà costituito entro il 31 maggio 2012, mentre si prevedono anche taxi collettivi come servizio integrativo.
Da votare ancora le norme sulla separazione Eni-Snam, che sarà accelerata e conclusa entro settembre 2013: l’emendamento dei relatori prevede la “piena terzietà” entro 18 mesi (erano 24) dall’entrata in vigore della legge, con modalità stabilite da un decreto entro il 31 maggio. Non depositata, invece, la proposta del Governo di allentare la “golden share” (poteri speciali di intervento dello Stato azionista) solo all’interno dell’Unione europea (il Consiglio dei Ministri ne ha rinviato l’esame, ma una bozza esiste). Questa sarebbe stata una novità assoluta che, attesa da tempo dal mercato e soprattutto a Bruxelles, avrebbe consentito allo Stato di fermare le scalate alle proprie aziende che operano nei settori della difesa e della sicurezza: una norma che sembrava rispondere perfettamente al caso in cui un soggetto come Gazprom avesse intenzione di acquistare quote di Snam – società che il governo vuole appunto scindere dalla sua controllante Eni.
Per quanto poi concerne le liberalizzazioni nel sistema bancario, c’è da dire che l’esecutivo tecnico di Monti, da subito appellato dai più critici come “il Governo delle banche”, non è gradito proprio dagli istituti di credito che si sentono colpiti da alcuni obblighi introdotti dal Salva Italia e dal decreto liberalizzazioni, obblighi che, sottolineano, si sommano a quelli su rafforzamenti patrimoniali e liquidità che provengono da Basilea 3 o dai “calcoli” dell’Eba, l’authority europea sul settore. Un deciso scontento si registra con riguardo alla nascita dei conti correnti a zero spese per gli anziani e l’abolizione delle commissioni per i pagamenti dei carburanti col Bancomat.
L’articolo 27 del decreto liberalizzazioni (che modifica/integra l’articolo 12 del decreto Salva Italia), infatti, per alleggerire il peso sui pensionati della limitazione dell’uso del contante al di sopra dei 1000 euro – che trova comunque la sua ragion d’essere nella lotta contro l’evasione fiscale –, prevede che dovrà essere garantita la gratuità delle spese di apertura e gestione dei conti di pagamento di base, destinati al credito e al prelievo della pensione del titolare, per gli aventi diritto a trattamenti pensionistici fino a 1500 euro mensili, ferma restando l’onerosità di eventuali servizi aggiuntivi richiesti dal titolare. Il testo che ha avuto l’ok della Commissione Industria del Senato lascia però aperti molti dubbi interpretativi: non sembra ancora chiaro se la cifra da considerare sia lorda o netta (il che cambia di non poco il perimetro di applicazione) e se i conti siano diretti anche a chi riceve una pensione massima di 1500 euro, ma poi possiede mobili e immobili. Per le banche, che comunque in molti casi non condividono l’obbligo perché lo considerano un “retaggio” di quando l’impresa creditizia era pubblica e quindi vista come servizio pubblico, sembra difficile calcolare quanto tutto ciò possa significare in termini di minori introiti.
Gli istituti di credito non gioiscono poi per la disposizione che stabilisce l’assenza di commissioni ai distributori di benzina per pagamenti con carta di credito fino a 100 euro, onere oggi a carico dell’esercente e che verrebbe dunque trasferito a banche e circuiti internazionali. In realtà, si tratta di un provvedimento introdotto già dal precedente governo, poi cancellato e reinserito, per cui difficile è capire quanto possa significare per gli istituti – non c’è visibilità sulla specifica tipologia di transazione. A parte, sul tema benzina, si segnala l’introduzione della possibilità per i gestori di rifornirsi liberamente da qualsiasi rivenditore e di stipulare, alla scadenza dei contratti, contratti diversi dagli attuali.
Altro rilevanti emendamenti riguardano l’articolo 29 del decreto. In particolare, un emendamento presentato dai relatori Filippo Bubbico (Pd) e Simona Vicari (Pdl), prevede che l’erogazione di un mutuo non potrà essere vincolata “all’apertura di un conto corrente presso la medesima banca, istituto o intermediario”. Lo stesso emendamento aggiorna il delicato tema delle assicurazioni Cpi (Credit protection insurance) sui mutui, quelle che coprono il rimborso delle rate in caso di perdita del posto del lavoro, problemi di salute e morte. L’ultima versione sembra prescriva alla banca, che condiziona il mutuo alla sottoscrizione di una polizza vita, l’obbligo di offrire al cliente due contratti di compagnie non riconducibili alle banche, agli istituti di credito e agli intermediari finanziari stessi, oltre alla propria. Inoltre, la nuova versione del testo stabilisce l’obbligo di accettazione, da parte della banca, dell’eventuale polizza che il cliente può scegliere sul mercato.
Infine, dopo i “disagi” che la frequentazione dei locali di Palazzo Madama (e non solo) da parte degli innumerevoli lobbisti ha creato negli ultimi giorni, arriva la proposta del Terzo Polo di regolamentare le lobbies: a firma Bruno, Germontani, Baio e Russo, un emendamento introduttivo dell’articolo 35 bis, rubricato “Disposizioni in materia di rappresentanza di interessi presso le istituzioni”, oltre a definire concetti della materia, potrebbe costringere centinaia di lobbisti che popolano le anticamere del Parlamento a iscriversi in un registro severamente regolamentato. Nel registro dovranno essere indicati: dati anagrafici e domicilio professionale del rappresentante d’interessi; dati identificativi del portatore d’interessi per cui è svolta l’attività di rappresentanza; l’interesse che s’intende rappresentare; le risorse economiche e umane di cui dispone il rappresentante d’interessi per lo svolgimento della propria attività; la tipologia di rapporto contrattuale intrattenuto con il soggetto per il quale si svolge l’attività. Per l’iscrizione nel registro, poi, si devono possedere una serie di requisiti, tra i quali l’avere compiuto 25 anni, non avere riportato condanne per reati contro lo Stato, la pubblica amministrazione, l’amministrazione della giustizia, l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica, il patrimonio, la pubblica fede e la persona, e non essere mai stato interdetto dai pubblici uffici. L’iscrizione al registro è subordinata all’impegno scritto di rispettare il codice di deontologia, che dovrà essere deliberato entro tre mesi dalla commissione parlamentare.
Queste le novità più importanti introdotte (o quasi) nella legge di conversione del decreto liberalizzazioni, in questi ultimi 10 giorni di lavori presso le Commissioni del Senato. Tra lunedì e martedì si attende il verdetto delle Commissioni Industria e Bilancio, poi il passaggio in Aula a Palazzo Madama e infine l’esame a Montecitorio. Un percorso ad ostacoli che dovrà fare i conti con la volontà del Premier Monti, assolutamente determinato nel non permettere uno stravolgimento della struttura del decreto.
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