Giovedì 29 marzo abbiamo incontrato il professor Tito Boeri, professore ordinario di Economia del lavoro presso l’Università Bocconi nonché fondatore del sito “lavoce.info”. Il prof. Boeri aveva appena partecipato ad un dibattito tenutosi presso la facoltà di Scienze politiche dell’università Federico II di Napoli, dibattito in cui si è discusso sull’argomento al centro dell’ultimo libro, scritto dal prof. Boeri insieme al prof. Pietro Garibaldi dell’università di Torino, “Le riforme a costo zero”. Ma si è parlato molto, ovviamente, anche della recente bozza di riforma del mercato del lavoro. Da questo punto di vista – come vedremo – il prof. Boeri non ha affatto lesinato critiche all’operato del governo. «La riforma non è all’altezza, né sul piano del metodo né su quello del merito – ha affermato – Bisognava intervenire non sullo stock di lavoratori, ma sui flussi (ossia sui nuovi contratti, e non su quelli già posti in essere, ndr). Non credo che i mercati e gli investitori stranieri si facciano scoraggiare dall’art. 18 su cui tanto si dibatte: i veri problemi sono l’enorme burocrazia e l’influenza della criminalità organizzata. Detto questo, la riforma del lavoro è un banco di prova importante per il governo italiano». Qualche stoccata anche a Corrado Passera: «Il governo Monti è in ritardo sul settore bancario, sono necessari interventi urgenti per uscire dalla stretta creditizia. Forse non è un caso che in un ruolo così delicato come quello di ministro per lo Sviluppo economico ci sia un ex banchiere». Al termine del dibattito, il professore si è reso disponibile a rispondere alle domande di YouTrend.
Professor Boeri, su quali principî si fonda l’idea del contratto unico alla base della proposta che ha elaborato insieme al prof. Garibaldi? Non rischia, da un lato, di costituire una limitazione delle libertà delle imprese e, dall’altro, di provocare un aumento del sommerso?
«Noi non prevediamo di vietare altre forme contrattuali. Poniamo delle penali sull’abuso di altre figure contrattuali, facendo sì che il lavoratore abbia più assicurazioni contro il rischio di perdere il lavoro se le accetta: quindi è un disincentivo ad abusarne, ma non le vietiamo. Per quanto riguarda il lavoro nero, l’evidenza empirica e molti studi dimostrano che in realtà l’introduzione di figure contrattuali temporanee ha provocato solo una sostituzione dei contratti di lavoro a tempo indeterminato con contratti di lavoro a tempo determinato, ma non c’è stata emersione del sommerso».
Come pensa di evitare nella sua proposta di riforma che dopo i primi 3 anni di prova, quando dovrebbe essere stabilizzato a tempo indeterminato, un lavoratore non specializzato sia scaricato a favore di uno nuovo?
«Nella nostra idea il contratto di inserimento (lo definiamo “unico” perché è quello verso cui si veicolano quasi tutte le assunzioni, ma potremmo definirlo anche “prevalente”) si fonda sul principio che vi sia un percorso: un lavoratore inizia a lavorare e man mano che va avanti il suo percorso di lavoro aumentano le sue protezioni. Però formalmente è, fin da subito, un contratto a tempo indeterminato: questo stimola sia l’azienda che il lavoratore a investire nella formazione specifica. Il contratto di apprendistato che esiste oggi, e che secondo la riforma Fornero dovrebbe essere valorizzato (anche se non si capisce bene in che modo), prevede invece che al termine del periodo di apprendistato il lavoratore possa essere licenziato senza costi, il che ci sembra una contraddizione in termini. Il modo giusto di incentivare la formazione invece è proprio dando durata all’impiego».
Il Ministro per la PA, Patroni Griffi, ha segnalato che le nuove norme sul licenziamento per motivi economici non troveranno applicazione nel pubblico impiego, in quanto in questi casi c’è una disciplina ad hoc. Lei è favorevole o contrario all’estensione agli statali delle nuove condizioni che varranno per i dipendenti del settore privato?
«Io penso che un governo che riforma il mercato del lavoro tenendo fuori il settore pubblico non sia credibile. Il governo è esso stesso un datore di lavoro (dei lavoratori pubblici), quindi nel momento in cui propone una nuova normativa deve dare anche il buon esempio. Al contrario, si tratta di un fallimento della riforma Fornero, perché pone in essere una tale asimmetria tra i licenziamenti individuali per motivi economici e quelli per motivi disciplinari che è inapplicabile al pubblico impiego: dove c’è una ragion d’essere per i motivi disciplinari ma non per quelli economici, che invece c’è nel settore privato. Proprio questa distorsione introdotta dalla riforma a mio giudizio è uno dei problemi più seri, perché creare questi due canali così diversi rischia di alimentare un contenzioso fortissimo nel passaggio tra le due fasi e rende anche difficile la sua applicazione nel pubblico impiego. Se si pensa ad una riforma inapplicabile nel pubblico impiego, anche considerando l’alta percentuale di lavoratori del settore pubblico in Italia, vuol dire che è una riforma fatta male».
A proposito di licenziamenti per motivi economici: in caso di contenzioso giuridico, come fa il giudice a stabilire quando l’azienda si trovi costretta a licenziare per ragioni oggettive e quando invece si tratti di cattiva gestione?
«È molto difficile. In certi contesti, possono essere utili dei consigli di sorveglianza, con delle rappresentanze dei lavoratori, per distinguere le due cose; ma ci sono casi in cui la distinzione è molto difficile. Così come quando si deve giudicare su un licenziamento dovuto a bassa produttività: come si fa a capire se è dovuta al fatto che i lavoratori non fanno il loro dovere (e quindi il licenziamento è di natura disciplinare) o al fatto che c’è un problema oggettivo – ad esempio non hanno le qualifiche necessarie? È difficile fare delle distinzioni su questo piano, per cui credo che bisogna trovare delle regole che scoraggino eventuali comportamenti opportunistici che poi gravano sulla collettività, creando situazioni in cui lo Stato deve intervenire economicamente. Per esempio, una cosa giusta da fare è che nella fruizione del sussidio di disoccupazione – come esiste per la cassa integrazione ordinaria – le imprese paghino di più nel caso in cui fruiscano di questi strumenti: nel linguaggio tecnico si chiama “experience rating”, cioè se l’azienda mette in esubero un alto numero di lavoratori, da quel momento deve pagare di più per l’assicurazione contro la disoccupazione, perché probabilmente in questo esubero c’è anche qualche responsabilità dell’azienda».
Siamo giunti alla spinosa questione degli ammortizzatori sociali. Cassa integrazione o sussidio universale di disoccupazione: quale preferisce e perchè? L’Italia dovrebbe intervenire?
«Penso che dovremmo avere un sistema che contempli schemi di incentivazione all’orario ridotto (tipo CIG) sul modello del Kurzarbeit tedesco: caratterizzato cioè dal fatto di intervenire solo in casi di aziende alle prese con crisi temporanee e in modo che il lavoratore non venga mai messo ad orario zero, e quindi continui a lavorare per meno ore ma continuando ad essere “dentro” l’impresa non solo formalmente. Poi c’è bisogno di un sussidio di disoccupazione universale, che interviene quando le situazioni di crisi non sono di breve durata. Infine ci dovrebbe essere uno strumento per chi ha esaurito la durata massima di questo secondo tipo di sussidio e rischia di cadere in una situazione di povertà: ad esempio un sistema di reddito minimo garantito, di assistenza sociale, ecc. Quindi abbiamo tre livelli su cui va riformato il sistema degli ammortizzatori in Italia. Purtroppo la riforma Fornero non tocca nemmeno questo argomento».
Ritiene che in generale le misure fin qui adottate dal governo nel complesso (aumento delle tasse, stretta sulle pensioni, liberalizzazioni, mercato del lavoro) producano più un effetto recessivo o di crescita?
«L’effetto recessivo è dovuto al consolidamento e all’aggiustamento dei conti pubblici, che era obbligato – e se l’avessimo ritardato saremmo stati costretti ad attuarne uno ancor più rigido, avremmo rischiato una situazione di ripudio del debito e a quel punto vi garantisco che le cose sarebbero andate molto peggio di come potrebbero andare adesso. Le liberalizzazioni possono avere un effetto sulla crescita economica, non immediato ma nel medio periodo. L’intervento sulle pensioni era un’altra cosa fondamentale per ridare credibilità al nostro paese».
Ma tutti i principali indici macroeconomici dell’Italia (PIL, retribuzioni, inflazione, produzione industriale, disoccupazione) hanno visto un netto peggioramento nel 2011. L’Italia è condannata ad una lunga recessione ed a uscire dal novero dei paesi più ricchi? Quando possiamo aspettarci di tornare a crescere?
«Se non affrontiamo i problemi strutturali del nostro paese, cosa fondamentale da fare oggi in questo contesto, rischiamo davvero un downgrading: il reddito medio degli italiani è al di sotto della media europea, non solo della UE a 15 ma ormai anche della UE a 27. Non credo che sia legato ai provvedimenti presi negli ultimi mesi, quello che conta nel posizionamento di un paese sono i trend nel medio periodo, i tassi di crescita nell’arco dei decenni. Se usciamo da questa crisi facendo riforme strutturali non vedo ragioni per cui l’Italia non debba tornare a crescere a ritmi sostenuti, non vedo ragioni per cui dovremmo crescere meno di paesi come la Germania».
Come si risolve uno dei principali problemi dell’economia italiana, la scarsa produttività?
«Quelle che girano attorno al mercato del lavoro sono questioni fondamentali per risolvere il problema della produttività. C’è il tema della contrattazione salariale decentrata, sarebbe un punto fondamentale, anche questo purtroppo eluso dalla riforma Fornero. Infine, liberalizzazioni più incisive sarebbero molto utili anche in questo senso».
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