Il 31 maggio si è votato in Irlanda per un referendum che chiedeva l’assenso o meno della popolazione al Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, più noto come Fiscal Compact.
I punti principali del Trattato sono:
• L’impegno ad avere un deficit strutturale che non deve superare lo 0,5% del PIL e, per i paesi il cui debito è inferiore al 60% del PIL, l’1%
• L’obbligo, per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del PIL, di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni, ad un ritmo pari ad un ventesimo dell’eccedenza in ciascuna annualità
• Ogni stato deve garantire le correzioni automatiche quando non raggiunga gli obiettivi di bilancio concordati ed è obbligato ad agire con scadenze determinate
• Le nuove regole devono essere inserite preferibilmente in norme di tipo costituzionale o comunque nella legislazione nazionale
Inoltre scattano penalità semi-automatiche in caso di sforatura del 3% del PIL da parte del deficit pubblico, e il Trattato entra in vigore se approvato da almeno 12 Paesi.
Si sono sfilati da subito i Paesi più euroscettici in questo momento, ovvero Regno Unito e Repubblica Ceca. In Irlanda invece, a differenza che negli altri Paesi dove l’approvazione è passata o passerà per i voti nei Parlamenti, il primo ministro Enda Kenny (Fine Gael) ha voluto che vi fosse un sostegno popolare per il Trattato.
L’Irlanda, più di altri Paesi, dipende strettamente dall’immagine all’estero, dall’idea di stabilità che riesce a dare di sé: il boom economico degli ultimi 15 anni della “tigre celtica” è avvenuta grazie a imponenti investimenti diretti esteri da parte di imprese dinamiche (finanziarie, informatiche…) che hanno spostato in Irlanda sedi amministrative o contabili grazie alle basse imposte. Questo ha provocato anche un cambiamento sociale, con la nascita di un ceto benestante, di professionisti urbani, impiegati nelle multinazionali e nella finanza, molto diversa dalla società rurale conservatrice che fino ad allora la caratterizzava.
La crisi del 2008 ha duramente colpito l’Irlanda, ma è stata una crisi di solvibilità del sistema bancario che aveva partecipato alla creazione di una bolla (soprattutto immobiliare, poi scoppiata) e in realtà l’imponente deficit di bilancio successivo è stato una conseguenza del bail-out per salvare le banche con carenza di liquidità, non una conseguenza di disavanzo pregresso o servizio sul debito pubblico, di entità modesta.
Il deficit ha raggiunto la cifra stellare del 32% sul PIL a causa di questo bail-out e quindi si è reso necessario un prestito di 85 miliardi da FMI, Fondo Salva-Stati e accordi bilaterali con i Paesi vicini (UK in testa).
La forza propulsiva principale del Paese, l’attrazione di investimenti esteri, grazie alla minore tassazione (non a caso non toccata dal nuovo governo Fine Gael-Labour), l’alto livello professionale degli irlandesi e l’uso dell’inglese, è stata a maggior ragione quella su cui l’Irlanda ha puntato per uscire dalla crisi e ha reso il Paese ancora più dipendente dalla sua immagine di affidabilità all’estero: su questo hanno puntato i partiti a favore del Sì, sulla garanzia di stabilità e affidabilità per gli investitori stranieri che sarebbe stata minata dal rifiuto di rispettare le condizioni poste dal Trattato.
I partiti di governo il Fine Gael, centrista liberale aderente al PPE, e il Labour, socialdemocratico, si sono posti a favore del Sì, così come il Fianna Fail, conservatori nazionalisti, in grande crisi dopo la cocente sconfitta alle elezioni del 2011 – e infatti qui vi sono state defezioni di carattere nazionaliste a favore del No.
Contro l’adesione al trattato si sono posti il Sinn Fein, sinistra nazionalista (la stessa presente nell’Ulster, che elegge deputati nel Parlamento britannico) guidata da Gerry Adams, così come l’Alleanza della sinistra unita, sinistra radicale, per opporsi alla perdità implicita di sovranità che scaturirebbe dall’adesione al Trattato e all’impossibilità di misure di welfare per i tagli al bilancio necessari.
Ecco i risultati finali:
Voti | % | |
Yes |
955,091 |
60.37% |
No |
626,907 |
39.63% |
L’affluenza è stata bassa, al 50,53%, contro una affluenza alle elezioni generali del 70%.
Maggiori % di Yes:
Dublin South 75.84
Dún Laoghaire 74.21
Dublin South East 72.30
Mayo 67.30
Cork South West 66.27
Limerick (County) 66.10
Clare 65.73
Cork North West 65.59
Tipperary North 65.58
Kildare North 65.28
Le prime tre circoscrizioni sono quartieri ad alto reddito di Dublino, le classi più elevate temevano di essere tagliate fuori dai finanziamenti comunitari; Mayo è una roccaforte del Fine Gael, e collegio elettorale del primo ministro Enda Kenny; vi sono poi cinque circoscrizioni rurali della contea di Munster, e in effetti gli agricoltori hanno sofferto meno la crisi finanziaria e sono meno anti-europeisti della media, per esempio rispetto alla classe operaia dublinese.
Maggiori % di No:
Donegal North East 55.63
Donegal South West 54.95
Dublin North West 53.24
Dublin South Central 50.90
Dublin South West 50.70
Dublin Mid West 49.99
Cork North Central 48.00
Louth 47.25
Dublin Central 46.47
Meath West 43.42
Le contee del Donegal sono le roccaforti dello Sinn Feinn, praticamente isolate al Nord e schiacciate dall’Ulster, molto nazionaliste e quindi sensibili alle sirene di Gerry Adams e compagni; così i quartieri molto popolari urbani di Dublino, non a caso gli stessi dove ottengono i voti maggiori Sinn Feinn, Sinistra Unita, l’indipendente pro-consumatori Shane Ross e anche il Labour party.
È evidente che, al netto delle differenze di affluenza, da soli gli elettori dei partiti schierati per il No, ovvero la sinistra radicale, assieme ai molti indipendenti posizionati su posizioni simili o populiste/nazionaliste, non avrebbero raggiunto quasi il 40%, ma come succede altrove in Europa è probabile che la base degli elettori moderati socialdemocratici del Labour abbia espresso una posizione in realtà più radicale di quella espressa dalla dirigenza del partito e così alcuni del Fianna Fail, quelli nazionalisti e populisti, e arrabbiati e scettici da destra con le istituzioni e la nomenklatura europea – assimilabili, per atteggiamento, a parte del PDL in Italia o a quelli di ANEL in Grecia o del PIS in Polonia.
In verità queste tendenze per il No non sono bastate, e decisamente le sezioni centrali della società, quelle più implicate nella struttura economica, sapendo quanto per il Paese fosse basilare il legame con l’estero, la fiducia da parte degli investitori stranieri, hanno deciso di non percorrere strade di isolamento e non tornare indietro rispetto all’immagine che l’Irlanda si è costruita negli ultimi 20 anni.
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