I giudici della Corte Costituzionale si sono pronunciati sulla legge 194 del 1978, quella che stabilisce le norme per cui si può interrompere una gravidanza, nella Camera di consiglio del 20 giugno scorso ed il giudice relatore è stato Mario Rosario Morelli, lo stesso che, quando era magistrato di Cassazione, scrisse la sentenza che, nel 2008, mise fine alla vicenda di Eluana Englaro. Tutto è partito da Spoleto, dove un giudice tutelare, a seguito della richiesta di una 16enne di abortire senza avere l’assenso dei genitori, ha chiamato in causa la Consulta. Il caso umbro riguarda una ragazza nata nel 1995 la quale, recatasi presso un consultorio accompagnata dal fidanzato, minorenne anche lui, esprime «con determinazione» di voler abortire non ritenendosi in grado di crescere un figlio, né disposta ad affrontare un evento che per lei rappresenterebbe «uno stravolgimento esistenziale». La legge 194, all’articolo 12, recita che «se la donna è di età inferiore ai diciotto anni, per l’interruzione della gravidanza è richiesto lo assenso di chi esercita sulla donna stessa la potestà o la tutela», normalmente i genitori. Tuttavia, «nei primi novanta giorni, quando vi siano seri motivi che impediscano o sconsiglino la consultazione delle persone esercenti la potestà o la tutela, oppure queste, interpellate, rifiutino il loro assenso o esprimano pareri tra loro difformi, il consultorio o la struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, espleta i compiti e le procedure di cui all’articolo 5 e rimette entro sette giorni dalla richiesta una relazione, corredata del proprio parere, al giudice tutelare», il quale «entro cinque giorni, sentita la donna e tenuto conto della sua volontà, delle ragioni che adduce e della relazione trasmessagli, può autorizzare la donna, con atto non soggetto a reclamo, a decidere la interruzione della gravidanza».
Il caso è introdotto con relazione della ASL 3 Umbria – Distretto sanitario di Spoleto del 2 gennaio 2012 – prot. 0024 concernente la manifestata volontà” della ragazza spoletina. Il competente Servizio presso l’ASL 3 di Spoleto riferiva al giudice tutelare la situazione della minore, presentatasi in data 27 dicembre 2011 presso il consultorio familiare spoletino, manifestando “con chiarezza e determinazione” la propria decisione di sottoporsi all’interruzione volontaria di gravidanza “in quanto non si ritiene in grado di crescere un figlio, ne’ disposta ad accogliere un evento che non solo interferirebbe con i suoi progetti di crescita e di vita ma rappresenterebbe un profondo stravolgimento esistenziale”. Alla relazione dell’ASL, compilata entro sette giorni dalla richiesta ed inviata al giudice, è allegato un referto datato 30 dicembre 2011 del servizio di ecografia-ostetrica dell’ospedale di Spoleto attestante una gravidanza alla sesta settimana in regolare evoluzione. È il giudice tutelare che, a questo punto del procedimento, entro cinque giorni, sentita la donna e tenuto conto della sua volontà, delle ragioni che adduce e della relazione trasmessagli, può autorizzare la donna, con atto non soggetto a reclamo, a decidere la interruzione della gravidanza (in tutto, fanno 12 giorni di attesa).
Il giudice però non prende alcun provvedimento e il 3 gennaio 2012 solleva una questione di costituzionalità di fronte al giudice delle leggi, impugnando l’articolo 4 della legge 194 – che stabilisce le circostanze che consentono l’aborto nei primi 90 giorni – a suo parere in configgente con gli articoli 2, 11, 32, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, oltre che con la sentenza della Corte di Giustizia europea del 18 ottobre 2011. A fronte di ciò, si noti primariamente la circostanza per cui la giovane sedicenne, nel frattempo, non abbia potuto usufruire di una legge in vigore, o meglio non nel modo in cui lei intendeva chiederne l’applicazione: dati i tempi del processo costituzionale, infatti, l’unica alternativa possibile prospettata alla giovane dagli stessi servizi sociali, al fine di poter interrompere la gravidanza, è stata quella di informare i genitori, superando di fatto e di diritto la necessità dell’autorizzazione da parte del giudice tutelare.
Si tratta di una questione che evidentemente ha ricadute molto più ampie rispetto a quelle del caso specifico ed investe lo stesso diritto della donna di scegliere se portare a termine o meno la gravidanza. Come detto, il giudice di Spoleto, nella sua ordinanza di remissione alla Consulta, ha citato una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea dello scorso che si era espressa sul tema della brevettabilità delle sperimentazioni sulle staminali embrionali. In questa pronuncia, l’embrione è definito «Qualunque ovulo umano fin dalla fecondazione, oppure non fecondato in cui sia stato impiantato il nucleo di una cellula umana matura e qualunque ovulo umano non fecondato che, attraverso partogenesi, sia stato indotto a dividersi e svilupparsi» e, secondo il giudice di Spoleto, tanto basta a sgombrare «il campo da qualsivoglia possibilità di interpretazione alternativa eventualmente finalizzata all’affermazione dell’esistenza di un embrione umano soltanto a partire da una determinata epoca successiva a quella della fecondazione». Dunque, secondo il giudice tutelare, che pare non considerare appieno il legame che in essa vi è tra la definizione di embrione ed il divieto di brevettabilità del prodotto della ricerca sulle staminali embrionali, la sentenza della Corte di giustizia sarebbe tale da mettere in discussione l’intero impianto della legge 194: in tal senso, la sollevata questione di costituzionalità è apparsa una forzatura giuridica e interpretativa, volta a riaprire un dibattito in verità già chiuso da tempo.
Oltre al fatto che la sentenza della Corte di giustizia si sia preoccupata di proteggere gli embrioni dalle mire commerciali di un imprenditore che intendeva brevettarne l’uso per ricavare cellule progenitrici, piuttosto che di sindacare il diritto all’aborto, la questione di costituzionalità è stata forse sollevata anche avendo poco riguardo dei precedenti giurisprudenziali sul tema. La Corte costituzionale, infatti, già con le ordinanze di manifesta inammissibilità n. 293/1993, n. 76/1996, n. 514/200, ha dichiarato l’irrilevanza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 4, 5 e 12, della legge 194, sollevata in riferimento agli articoli 2, 3, 31, secondo comma e 32 della Costituzione. È quindi inammissibile per irrilevanza, nel corso del procedimento relativo alla richiesta di una minore tesa ad ottenere l’autorizzazione a decidere l’interruzione volontaria della gravidanza, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 della 194 sollevata dal giudice tutelare: sebbene il mancato assenso anche di uno solo dei genitori sia, nella previsione dell’articolo 12 della legge 194, sostituito dal provvedimento del giudice tutelare, consistente in una autorizzazione a decidere, tale provvedimento rimane esterno alla procedura di riscontro, nel concreto, dei parametri previsti dal legislatore per potersi procedere all’interruzione della gravidanza, in quanto l’accertamento e la valutazione di quei parametri sono compiuti dal consultorio, dalla struttura socio-sanitaria o dal medico di fiducia, cui la minore si è rivolta.
Arriva dunque la pronuncia della Corte costituzionale: i giudici della legge si sono direttamente riuniti in Camera di Consiglio per discutere, perché nessuna parte si era costituita e in questo caso il regolamento della Corte prevede che si possa andare subito a pronunciamento. La Consulta ha respinto il ricorso contro la legge 194, dichiarando, alla stregua dei suoi precedenti, manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 della legge 194 sollevata dal giudice tutelare del Tribunale di Spoleto.
Soddisfatte della decisione le deputate del Pd Livia Turco, secondo cui “si dimostra ancora una volta che l’impianto della legge 194 è inattaccabile perché basata su un giusto equilibrio fra la scelta e la salute della donna e la tutela della vita”, e Barbara Pollastrini, che chiede di fermare gli attacchi alla legge 194 e di iniziare ad applicarla in tutte le sue parti. Per Filomena Gallo, segretario dell’associazione Luca Coscioni, “la decisione di oggi chiarisce che la legge sull’aborto è intoccabile e deve essere garantito il servizio, pena il ricorso alle autorità giudiziarie. Obiettivo in termini di civiltà e tutela deve essere quello di far avanzare il riconoscimento dei diritti, non solo respingendo ogni attacco strumentale e mascherato alla 194, ma estendendo l’informazione sessuale e garantendo il legittimo ricorso all’aborto chirurgico e farmacolotico con la pillola RU486”. Per il deputato del Pdl Alfredo Mantovano: “La decisione della Corte costituzionale di dichiarare inammissibile la questione di legittimità dell’articolo 4 della legge sull’aborto è in linea col tratto pilatesco che la Consulta ha quasi sempre seguito ogni qual volta si è interessata della legge 194”. “È dal 1980 che la Corte Costituzionale riesce a non dirci, con espedienti procedurali vari, se l’aborto come disciplinato nei primi tre mesi di gravidanza è conforme alla Costituzione oppure no”, ha commentato Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita. “Come in almeno altri 25 casi precedenti, anche questa volta la Corte ha accuratamente evitato di entrare nel merito. Per dirla in modo semplice, alla domanda del giudice ha risposto: non posso darti una risposta né in un senso né nell’altro”.
Come spiega il presidente emerito della Corte Costituzionale, Cesare Mirabelli, fornendo una lettura tecnica della decisione e ricordando il medesimo orientamento della Corte rispetto ad istanze pervenute da giudici tutelari su questioni analoghe precedenti, la richiesta formulata dai servizi sociali che a nome della minorenne si sono rivolti al giudice tutelare riguardava “non l’autorizzazione ad abortire”, ma investiva solo “la maturità della minorenne a decidere”. In tal senso, si sottolinea come la decisione assunta dalla Consulta sia di natura processuale, e non di merito e – prosegue Mirabelli – “riguarda in via preliminare quale sia, in casi di questo tipo, il ruolo del giudice tutelare. Quest’ultimo non è chiamato ad autorizzare o meno la minore, cioè non partecipa alla volontà abortiva della minorenne, deve solo verificarne la adeguata maturità”. Nonostante ciò, Mirabelli ritiene che ciò non voglia dire che, in se stesso, il tema sollevato dal giudice tutelare non abbia una sua “consistenza nel merito”. In conclusione, ciò che rileva in questioni simili che entrino però nel merito, è il bilanciamento tra diritti costituzionalmente garantiti, bilanciamento sempre più complesso oggi, anche considerando le difficoltà che può incontrare una donna che vuole abortire dati i trend dell’obiezione di coscienza nel nostro paese.
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