Il 24 agosto scorso, il Consiglio dei Ministri si è riunito per discutere il piano sulla crescita. Mettendo le mani avanti, il Premier Mario Monti aveva presentato il Consiglio dei Ministri come un seminario e si aspettava solo qualche critica per l’ampiezza del testo finale, più simile a un programma vero e proprio che a un’agenda di fine legislatura. Invece, l’assenza pressoché totale di risultati concreti ha fatto emergere un’inattesa freddezza da parte della maggioranza.
Bersani, che chiede a Monti un cambio di passo, ha parlato di “buone intenzioni” ma nulla più e consigliato ai tecnici più concretezza. L’Udc, in genere “iper-montista”, ha invitato a passare dalle parole ai fatti con parole simili a quelle del leader Cisl, Bonanni, il quale ha avvertito che, senza un patto per il lavoro con tutti i soggetti interessati, il governo non andrà da nessuna parte. L’ala dura del PdL ha usato gli stessi toni di Di Pietro e Lega, parlando d’incapacità gestionale e accusando i ministri Passera e Fornero di aver raccontato “balle” sul taglio delle tasse – lo stesso Alfano ha chiesto ai Ministri di non trascinare Monti in campagna elettorale, anche perché si voterà fra sei mesi e il PdL ha intenzione di “correre per vincere”.
Il punto è che le critiche a Monti s’intrecciano con le trattative sulla riforma elettorale. Chi immagina un confronto centrodestra e centrosinistra, non vuole che la nuova legge renda inevitabile un “Monti dopo Monti”, cioè una nuova larga coalizione dopo il 2013, e così inizia a marcare le distanze dal governo. Nel Pd la chiamano la “strategia della non sfiducia”: la proposta, d’ora in poi, di un’agenda Bersani contrapposta a un’agenda Monti. Per Palazzo Chigi, il dato è l’avvio di una lunga campagna elettorale e il timore è che il governo si trovi indebolito, mentre in Europa si giocano partite cruciali: gli sviluppi della crisi greca, le decisioni della BCE sugli interventi anti spread, la decisione dei giudici costituzionali tedeschi sul Fondo Salva Stati.
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