L’imposta di bollo del 0,05% su tutte le transazioni finanziarie a Piazza Affari (esclusi i soli titoli stato europei) entra nella bozza di legge di stabilità del governo. La cosiddetta Tobin Tax ha già incassato il consenso di Francia e Germania, mentre UK, Svezia e Olanda si smarcano decisamente. Il percorso europeo sembra ancora in salita ma l’Italia anticipa tutti ponendo l’introduzione della nuova tassa a partire dal 1° Gennaio 2013. Per una volta siamo i primi, ma è un fatto positivo?
Il concept del premio Nobel James Tobin, risalente al lontano 1972 dopo la fine ufficiale del Gold Exchange Standard, era piuttosto differente rispetto alla corrente declinazione della tassa che pure porta il suo nome – fatto che gli suscitò una non velata insofferenza nei suoi ultimi anni di vita, quando la sua idea fu ripresa dai movimenti no global contro la finanza. La proposta di Tobin era in effetti ben diversa, da economista puro. La tassazione (0,5%) doveva essere globale ed era circoscritta al mercato valutario con un obiettivo ben preciso: ridurre le fluttuazioni e la speculazione sulle valute, portando indubbi benefici in termini di stabilità nei paesi a valuta debole, dove le crisi valutarie si erano ripercosse drammaticamente sull’economia reale del paese. La tassa era la strumento, il gettito ricavato solo un corollario, non un fine. Da lì la proposta di destinarlo alle organizzazioni internazionali per progetti di cooperazione.
In Italia, come detto, il governo intenderebbe introdurre la FTT (Financial Transaction Tax, termine più appropriato) applicando un’aliquota dello 0,05% sul valore nominale di tutte le transazioni finanziarie, azionarie e derivati, con l’esclusione dei titoli di stato di emittenti europei. Il gettito si aggirerebbe attorno a 1 miliardo di euro all’anno. Una tassazione che colpisce tutti, dal piccolo investitore al grande fondo di investimento. Si sa che nel trading i margini sono piccoli e i costi di transazione sono la chiave per concludere il deal; nella relazione tecnica del ddl, il governo stima una riduzione degli scambi del 30% sul mercato azionario e fino all’80% sui prodotti derivati.
A questo punto la domanda è semplice: la forte riduzione delle transazioni riduce la speculazione? Ammesso sia così, è questo l’obiettivo o il fine è far cassa per tappare i buchi dei bilanci pubblici, italiani o europei che siano?
Instabilità e speculazione significano alta volatilità (e rischio) nel mercato finanziario. Diverse ricerche hanno indagato la correlazione tra l’aumento dei costi di transazione (la Tobin Tax sarebbe solo uno di questi) e la riduzione della volatilità. Sul mercato dei cambi e azionario i risultati dimostrano un scarso legame tra le variabili nel medio periodo; ma sicuramente la FTT ostacola quelle operazioni cosiddette frequenti e di breve periodo, ma che non necessariamente devono essere “puramente speculative” e perciò “dannose”. Se nel breve periodo l’effetto di stabilizzazione dei prezzi è concreto, gli effetti sulla crescita e l’economia reale nel medio-lungo periodo sembrano essere negativi. I rischi sono legati alla fuga dei capitali, ai forti limiti all’espansione societaria, alla crescita dei costi di finanziamento, ai forti rischi di liquidità sul mercato.
Il caso di studio (l’unico nel suo genere) è quello svedese, dove dal 1984 si è applicata una vera FTT sul mercato azionario e obbligazionario con aliquote fino all’1%. L’iniziativa venne archiviata nel 1992 perché ritenuta fallimentare (da cui si può comprendere il parere negativo oggi del governo svedese). Gli asset subirono un’immediata svalutazione, le contrattazioni scesero nel breve periodo dell’85%, le espansioni societarie si ridussero con impatti negativi sulla crescita occupazionale, una mole di scambi sui maggiori titoli svedesi si spostò velocemente a Londra, l’afflusso di capitali esteri si interruppe per via non solo della nuova tassazione ma dell’illiquidità (basso numero di scambi) del mercato borsistico che aumentava il rischio d’investimento nel paese. I risultati in termini di gettito non furono migliori: le stime superavano di 30 volte il gettito effettivamente ottenuto su alcuni segmenti con l’obbligazionario per via della drastica riduzione delle transazioni, la fuga dei capitali e degli operatori sul mercato londinese, lo stop del flusso di capitali esteri.
Gli effetti in Italia potrebbero non essere molto diversi come espresso da alcune ricerche dell’Istituto Bruno Leoni. Se in maniera forse propagandistica la FTT dovrebbe colpire mondo finanziario e bancario (assurti a capri espiatori della crisi globale), in realtà il costo della maggiore pressione fiscale graverebbe sugli investitori e risparmiatori all’acquisto di qualunque strumento finanziario. L’impatto sarebbe negativo anche sull’industria, la maggiore pressione sul sistema bancario si ripercuoterebbe in una crescita del costo di finanziamento per le imprese. La diminuzione del numero di transazioni finanziarie aumenterebbe il rischio di illiquidità sul mercato, deprezzando i titoli e scoraggiando ancora una volta l’afflusso di capitale estero di cui il paese ha bisogno. Forti perplessità inoltre sull’effettiva entità del gettito stimato. Gestori ed investitori si stanno già guardando attorno e la fuga di capitali potrebbe essere molto più forte di quanto preventivato.
Questi gli effetti dell’applicazione della FTT a livello di singola nazione, ma i risultati non sarebbero verosimilmente molto migliori se applicata in tutta l’Eurozona o peggio ancora in una sua porzione, viste le opposizioni al suo interno. UK e USA si sono dette in alcune occasioni ufficiali favorevoli all’introduzione di una Tobin Tax globale, ma il problema è quello classico: chi farà la prima mossa? Chi mai otterrebbe un vantaggio nel copiarla?
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