La lotta contro le pratiche di mutilazione genitale femminile continua e si rafforza, segnando una tendenza positiva sia a livello internazionale che di singoli paesi
Oltre a costituire di per sé una patente violazione dei diritti fondamentali, la mutilazione genitale femminile, nel breve e lungo termine, compromette in maniera seria e irreparabile la salute fisica e mentale delle donne e delle ragazze che l’hanno subita: si tratta di un vero e proprio attentato grave all’integrità della persona che in alcuni casi può addirittura essere fatale. I danni causati da queste pratiche alla salute sessuale e riproduttiva sono accertati e denunciati da numerosi rapporti di agenzie internazionali: in particolare, l’uso di strumenti rudimentali e l’assenza di precauzioni antisettiche comportano effetti nocivi, al punto che i rapporti sessuali e il parto possono risultare dolorosi e che gli organi interessati subiscono danni irreparabili, con la possibile insorgenza di complicazioni, come emorragie, stato di shock, infezioni, trasmissione del virus dell’AIDS, tetano e tumori benigni, anche in relazione alla gravidanza e al parto.
Quello della mutilazione genitale è un trauma gravissimo e spesso provoca depressioni e disturbi psichici permanenti. Questa pratica costituisce, di fatto, un indice della disparità nei rapporti di forza tra generi, in quanto e rappresenta una forma di violenza nei confronti delle donne, al pari delle altre gravi manifestazioni di violenza di genere. Inoltre, poiché la mutilazione genitale femminile è per lo più praticata in età infantile (fino ai 15 anni di età), essa comporta anche una violazione dei diritti dei minori.
Queste pratiche, secondo i dati più aggiornati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, riguardano attualmente tra i 100 e i 140 milioni di donne di tutte e età, mentre ogni anno, secondo quanto riferito dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, 3 milioni rischiano di subirle. Il tipo d’intervento imposto varia a seconda del gruppo etnico di appartenenza: il 90% delle mutilazioni praticate è di tipo escissorio (con taglio e/o rimozione di parti dell’apparato genitale della donna), mentre un decimo dei casi si riferisce all’azione specifica della infibulazione, che ha come scopo il restringimento dell’orifizio vaginale e può a sua volta essere associato anche a un’escissione.
L’Africa è di gran lunga il continente in cui il fenomeno è più diffuso, con 91,5 milioni di ragazze di età superiore a 9 anni vittime di questa pratica, e circa 3 milioni che ogni anno si aggiungono al totale. La pratica è documentata e monitorata in 26 paesi africani: in particolare, in Egitto, Eritrea, Gibuti, Guinea, Mali, Sierra Leone e Somalia e nel Nord del Sudan il fenomeno tocca praticamente la quasi totalità della popolazione femminile (oltre l’80%), con punte più elevate nelle aree rurali e più basse nelle aree urbane ad alta densità, come ad esempio il Cairo, mentre in Burkina Faso, Etiopia, Gambia, Mauritania la diffusione è alta ma non così estesa. Ancora, in Ciad, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Kenya e Liberia il tasso di prevalenza è considerato medio – tra il 30 e il 40% della popolazione femminile, mentre nei restanti paesi la diffusione delle mutilazioni genitali femminili varia dal 5 al 19%.
Ad ogni odo, i flussi migratori hanno “transnazionalizzato” il fenomeno, portandolo in Europa e nel Nord America, per cui attualmente in Europa vivono 500.000 donne che hanno subito mutilazioni e, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, altre 180.000 sarebbero a rischio. Secondo gli esperti, inoltre, si tratta di stime al ribasso che non tengono conto degli immigrati di seconda generazione o di quelli in posizione irregolare. Ricordando i risultati del progetto STOP MGF (2009), dell’Associazione NoDi “I nostri diritti”, finanziato dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per quanto riguarda il nostro paese, sarebbero circa 90.000 le donne immigrate che hanno subito le pratiche della mutilazione genitale mentre, secondo l’Istat, in Italia ogni anno circa 35.000 donne e bambine emigrate ne sono vittima.
Gli sforzi internazionali per combattere tali pratiche barbare si sono vieppiù moltiplicati negli anni recenti e lo stesso è accaduto a livello sovranazionale. Anche il nostro Paese, all’indomani dell’approvazione in Senato del ddl di ratifica della Convenzione di Lanzarote e della mozione unitaria sul contrasto alla violenza sulle donne, ha firmato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, ovvero la c.d. Convenzione di Istanbul. Il via libera alla firma della Convenzione di Istanbul, primo strumento giuridicamente vincolante per gli stati in materia di violenza sulle donne e violenza domestica, costituisce oggi il trattato internazionale di più ampia portata per affrontare il fenomeno. L’aspetto più innovativo del testo è rappresentato dal fatto che la Convenzione riconosce la violenza sulle donne come una “violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione”.
Ora, l’auspicio è che il ddl di ratifica della Convenzione di Istanbul, di prossima presentazione, possa ricevere la stessa condivisione in sede parlamentare e venga approvato in tempi rapidi. L’incontro citato, tenutosi lo scorso 18 ottobre presso il Senato della Repubblica, ha visto anche la partecipazione del Ministro degli Esteri, Giulio Terzi, il quale ha annunciato il deposito, da parte del gruppo dei paesi africani, di una proposta di risoluzione dell’Onu contro le mutilazioni dei genitali femminili, calendarizzata in sede ONU per il prossimo dicembre. Si tratta, secondo il Ministro, di “Un primo grande successo per le donne, per i diritti umani e per l’Italia”.
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