Alla fine Pahor ce l’ha fatta. Il 2 dicembre il leader dei socialdemocratici sloveni ha scalzato il capo di stato uscente Danilo Türk al ballottaggio delle elezioni presidenziali. Con il 67% dei consensi Borut Pahor è il nuovo Presidente della Slovenia, carica di per sé priva di poteri diretti, ma dalla quale potrà tornare al centro di quella scena politica da cui era stato escluso in seguito alla vittoria dei conservatori alle elezioni parlamentari del 2011. In quell’occasione i socialdemocratici, puniti dagli elettori a causa delle dure politiche di rigore del governo Pahor, avevano di poco superato il 10% dei consensi, ritrovandosi relegati alla marginalità politica e fuori dal governo.
Il primo turno delle Presidenziali aveva visto l’originale situazione di un ballottaggio tutto a sinistra, dato che il Presidente uscente Danilo Türk è un liberale indipendente, eletto nel 2007 grazie all’appoggio di tutto lo schieramento progressista, social democratici compresi. L’affluenza, già bassissima al primo turno, è scesa al 42% per il secondo, il minimo storico, probabilmente a causa dell’esclusione dalla sfida di tutto il centro-destra, il cui candidato Milan Zver era stato eliminato al primo turno. Una parte dell’elettorato conservatore ha però scelto lo stesso di andare a votare – come peraltro era stato previsto – e di votare per Pahor, considerato più vicino alle politiche rigoriste dell’attuale governo.
Il clima nel quale si sono svolte queste elezioni è molto più teso di quello di un anno fa. Da una settimana si susseguono manifestazioni, cominciate da Maribor ed allargatesi poi al resto del paese. Venerdì scorso la polizia ha represso una manifestazione giovanile con metodi che non si vedevano dall’epoca dell’indipendenza, suscitando molte polemiche. Ma la durezza della risposta non ha fermato i manifestanti e i disordini continuano anche in questi giorni.
La crisi ha colpito gravemente la Slovenia, considerata fino a pochi anni fa un modello di sviluppo riuscito per tutto la regione nonché primo paese dell’Europa orientale ad essere entrato nell’Euro. La disoccupazione sfiora ormai il 10% e la recessione colpisce duramente dal 2009 la piccola repubblica ex-jugoslava. Pahor ha dichiarato, all’indomani della sua elezione: «Ci dev’essere una strada che porti fuori dalle pur enormi difficoltà» ma, stando alle posizioni che ha tenuto durante tutta la campagna elettorale, questa strada non dovrebbe discostarsi troppo da quella tracciata precedentemente: continuare con i tagli alla spesa pubblica per salvare il rating del paese e ottenere nuovi prestiti a tassi d’interesse accettabili.
C’è un dato di carattere europeo che si può rilevare da questa tornata elettorale. Le Presidenziali slovene per alcuni aspetti assomigliano pericolosamente a quelle greche della primavera scorsa, paragone che – al netto di tutte le differenze – trova riscontro in una recente dichiarazione del premier Janez Janša. Il dato è che sembrano assottigliarsi notevolmente i margini politici della sinistra riformista in tempo di crisi. Nei paesi più piccoli e più consapevolmente legati agli andamenti economici del proprio contesto geografico sembra prevalere un atteggiamento che spinge i gruppi dirigenti, ma anche gli elettori, della sinistra tradizionale (i social democratici, in greco leggasi PASOK) a sostenere le politiche di austerity e a fare asse con i conservatori. Una tendenza elettoralmente suicida che porta ad una drastica diminuzione dei consensi per la ragione naturale che le socialdemocrazie rappresentano fasce di lavoratori certamente ‘tutelati’, ma pur sempre dipendenti e quindi colpiti insieme dalla crisi e dalle misure di austerità. D’altra parte l’elettorato più radicale – nel quale sono rappresentate le marginalità sociali che nella crisi hanno subito il colpo più duro – è spinto, in assenza di prospettive di governo a sinistra, sempre più verso l’astensione o addirittura – e questo vale soprattutto per gli elettori più giovani – verso l’antagonismo. Questo fenomeno è sicuramente spiegabile con la difficoltà della sinistra tradizionale di conciliare la propria vocazione di governo con delle politiche almeno moderatamente alternative al rigore e affonda le sue radici in vent’anni di egemonia – parziale o totale a seconda dei casi – dei conservatori.
La Francia di Hollande rappresenta invece un esempio opposto: dove la sinistra è stata meno subalterna – almeno a parole – alle politiche liberiste e dove l’opinione pubblica sente poco il peso di vincoli esterni, i socialisti sono in grado di offrire una prospettiva politica autonoma – anche se ovviamente non antitetica – rispetto all’austerità. A questo punto sorge spontanea la domanda: dove si colloca la sinistra italiana nello spazio compreso tra i socialisti greci e quelli francesi?
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