Pochi avrebbero scommesso sul Partito Democratico all’indomani della sconfitta delle elezioni 2008. Eppure è riuscito, dopo tumultuosi cambi di leadership, toni e programmi, a costruirsi una credibilità sempre maggiore; culminata con il successo delle primarie per il candidato premier del 25 novembre
Costruire un forte e solido partito riformista di riferimento: questo è stato, per anni, l’obiettivo di molti politici del centro-sinistra intenzionati a ribaltare le sorti di una sinistra moderata che non era mai riuscita a governare da sola e con continuità il Paese. La base di partenza fu sicuramente quella dell’Ulivo, un’esperienza che per oltre un decennio servì a gettare le basi per ciò che venne in seguito. Quando nel 2006 l’Ulivo di Prodi – che guidava la coalizione dell’Unione – uscì dalle politiche come la forza politica con il maggior numero di voti (il 31% alla Camera), i partiti federati sotto quel simbolo – i Democratici di Sinistra e La Margherita – decisero che era arrivato il momento giusto per osare. Forti della posizione in Parlamento e al Governo avviarono un progetto di fusione totale, che sarebbe sfociato, nel 2007, nella nascita di un nuovo soggetto politico: il Partito Democratico, con le primarie “fondative” che ne misero a capo Walter Veltroni.
Il neonato partito, fragile e ancora in fase di incubazione, dovette subito fronteggiare una grande sfida in seguito alla caduta del Governo Prodi. Le elezioni erano imminenti e Veltroni provò a ribaltare il destino che vedeva Berlusconi di nuovo vittorioso. La sua linea fu chiara: stop alle grandi e inaffidabili coalizioni e via verso il bipartitismo, con soli due partiti a contendersi la partita del governo nazionale.
Quando però il Pd perse le elezioni politiche dell’aprile 2008, aggiudicandosi il 33,1% dei voti contro il 37,4% del PdL, furono Veltroni stesso e la sua linea a pagarne le conseguenze, dopo soli 10 mesi. L’identità era tutta da ricostruire, sia in Parlamento – dove il tentativo di “Governo ombra” nacque e morì in meno di un anno – sia nei confronti degli elettori, che non sapevano più esattamente a chi affidare lo scettro della leadership.
Non certo a Dario Franceschini, vice di Veltroni, che assunse le redini di partito fino alle primarie dell’ottobre 2009, dove fu sconfitto da Pierluigi Bersani. Con la sua vittoria, però, il processo ricominciava: ristabilire i vertici del partito, riscrivere l’agenda, tessere le nuove alleanze. Sarebbe stato il Bersani riformista delle liberalizzazioni durante il Governo Prodi, o il Bersani socialdemocratico? O ancora, il Bersani che stringeva accordi con il vecchio filone della Democrazia Cristiana? La risposta tardava ad arrivare e il Pd, su cui pesò anche la sconfitta in regioni importanti come il Lazio, il Piemonte e la Campania nel 2010, continuò il suo lento trend negativo.
La svolta arrivò con la mozione di sfiducia (non passata per una manciata di voti) al governo Berlusconi del 14 dicembre 2010. Da quel momento il Partito Democratico ha riconquistato sempre più consenso, senza mai interrompere il trend positivo. L’elettorato si rese conto che poteva fare affidamento su quella che sembrava sempre più una caratteristica consolidata del Partito Democratico, propria anche del segretario Bersani: la capacità di assorbire le differenze interne senza eccessive turbolenze e presentarsi come forza credibile sul panorama politico italiano.
L’estate del 2011 portò una ventata di consensi, grazie alle amministrative dove il centro-sinistra in generale portò a casa grandi risultati (su tutti, l’elezione di Pisapia a Milano). Anche la scelta di appoggiare il fronte del “Sì” alla tornata referendaria sull’abrogazione del nucleare, del legittimo impedimento e delle norme che modificavano la gestione del servizio idrico e altri servizi pubblici locali, fu ripagata con sempre più elettori potenziali nei confronti del partito. Proprio in questo momento, comparando il trend dei sondaggi tra PdL e Pd, ci fu lo scambio di posizioni: il partito di Berlusconi, in discesa libera, vide i suoi consensi abbassarsi definitivamente sotto quelli del Partito Democratico, che invece stava salendo sempre più.
La vera battaglia, però, che il Pd dovette combattere arrivò con le dimissioni di Berlusconi e l’arrivo di Monti: qui la forza del centro-sinistra avrebbe dovuto, allo stesso tempo, appoggiare responsabilmente Monti ma anche progettare il ritorno al governo in occasione della tornata elettorale che si sarebbe tenuta di lì a un anno e mezzo.
Il 2012, affrontato con cautela ma anche con intelligente programmazione, è stato di certo l’anno della definitiva consacrazione grazie a numerosi fattori. L’astuzia di Bersani, che si è messo in gioco lanciando delle primarie per la scelta del candidato premier – nonostante a norma di Statuto ciò non fosse necessario. La possibilità, data ad altri alleati esterni al Partito di mettersi in gioco per la leadership, come Nichi Vendola. La tenacia di Matteo Renzi, che ha reso la competizione vera e aperta come mai nella storia delle primarie del centro-sinistra. E, infine, l’abilità di riconoscere il sentimento dell’opinione pubblica e alla comprensione che all’anti-politica si può rispondere solo rispolverando tutta la bellezza del processo democratico nella sua interezza.
Dopo anni di storia turbolenta, il Pd sembra ora il partito più solido del panorama italiano, pronto ad affrontare le elezioni di febbraio con dei consensi attualmente molto alti. I rischi e le sorprese, però, sono ancora dietro l’angolo: non solo il rinato centro-destra di Berlusconi ma anche il “centro” montiano, che abbiamo visto essere entrambi pronti a contrastare con decisione chiunque canti vittoria troppo presto.
Commenta