Le elezioni del 24 e 25 febbraio ci hanno lasciato con un’Italia che potremmo definire semi-tripolare, con un quarto polo centrista lontano dagli altri 3 in termini elettorali, ma ancora in grado di essere decisivo alleandosi con l’uno o con l’altro in varie regioni. Il voto di febbraio ha anche modificato pesantemente la geografia elettorale italiana. L’avvento di Grillo, per esempio, ha tolto al PD il trono di primo partito nelle Marche: non era mai successo nella storia della Seconda Repubblica, nemmeno quando PdS e Margherita correvano divisi. Stesso dicasi per il suo incredibile successo in Sicilia: quella del 61 a zero pro-Berlusconi del 2001, per intenderci. Il paese è cambiato nel giro di 5 anni, più della sua classe politica. Le interpretazioni che girano in questi giorni sono le più disparate e poche sembrano trovare conferma nei numeri. Cerchiamo di gettare, per quanto è possibile, luce su alcuni punti importanti. In particolare tenendo conto di un fattore solitamente poco considerato: una parte rilevante della popolazione italiana vive in piccoli e medi comuni. Il 66% degli elettori vive in città con meno di 50.000 abitanti, tradizionalmente territorio fertile per le forze più conservatrici in tutta Europa. Questa tendenza sembra confermarsi anche nel Belpaese.
Prima di addentrarci nell’analisi, gettiamo un occhio ai voti validi. Rispetto al 2008 si perdono quasi due milioni e mezzo di voti. È da notare come nelle città sopra i 500mila abitanti il numero di schede valide tenga come nel resto del paese. Già questo dato è interessante: vista la presenza del M5S ci si sarebbe potuti aspettare una maggiore tenuta delle aree urbane. Questo, invece, non avviene. Cosa che già ci fornisce qualche spunto di riflessione sul rapporto Movimento 5 Stelle/campagne.
I due principali candidati ne escono fortemente ridimensionati: -3.600.000 Bersani (pur allargando la coalizione : se da un lato perde l’IdV, dall’altro acquista SeL, PS e SVP) e -7.100.000 Berlusconi (anche lui nonostante rispetto al 2008 la sua coalizione sia più larga). Una débâcle di proporzioni gigantesche per entrambi. Se il segretario del Pd conserva il 73,4% dei voti di Veltroni, Berlusconi si limita al 58%. Il divario tra le due coalizioni nel 2008 è stato tuttavia così ampio, che pure perdendo ben più dell’avversario, il Cavaliere è ugualmente riuscito ad arrivare ad un soffio da una (è il caso di dirlo) storica vittoria alla Camera dei Deputati. Pur non prendendo mai così pochi voti nella storia della Seconda Repubblica. Rispetto al 1996, quando corse senza la Lega, perde quasi sei milioni di voti, ma sfiora ugualmente il colpaccio. Se il centrodestra non venisse da due anni di sconfitte storiche e non avesse recuperato oltre dieci punti (guardando i sondaggi), ci sarebbero gli estremi per parlare di tracollo. Il risultato del centrosinistra “vincente” però aiuta Berlusconi a nascondere i suoi cocci. Bersani infatti ottiene il 55% dei seggi alla Camera, con un risultato storico. In senso negativo. Il segretario del PD è il candidato premier di centrosinistra a prendere meno voti della storia della Seconda Repubblica. Superato anche da Occhetto, che raccolse nel 1994 oltre 3 milioni di voti in più di Bersani. Eppure, grazie al Porcellum, potrà contare su una larga maggioranza alla Camera e su un seggio in più al Senato rispetto all’ultimo segretario del PCI.
Bersani: i progressisti chiusi nel vecchio recinto del PCI
Come noto il centrosinistra è riuscito a strappare di misura la Camera al centrodestra, grazie ai voti dei sudtirolesi dell’SVP (che, ricordiamo, è un voto di simbolo, pertanto non avrebbe risentito dal correre solo). Autonomisti di lingua tedesca a parte, la “vittoria” bersaniana si concentra in particolar modo nei maggiori centri urbani dove la coalizione di Berlusconi è addirittura terza, dietro a Grillo. L’inversione avviene nei comuni sotto i 50 mila abitanti ed il margine aumenta ancora in quelli sotto i 15 mila dove Berlusconi recupera il pesante gap accumulato nei centri sopra i 100 mila (circa 8 punti di distacco in media). A livello di liste, il PD supera il 28% nei comuni più grandi, toccando il suo minimo nei comuni sotto i 15 mila dove si ferma al 24,2%. È sotto i 100mila abitanti che la lista di Grillo costruisce il suo sorpasso a danno del partito di Bersani recuperando 300mila voti. Guardando al passato, Bersani perde, rispetto a Veltroni, 10 punti nelle grandi città e 6 punti e mezzo nei comuni inferiori, dove però partiva da uno score decisamente basso. In termini di tenuta però, Bersani ottiene la sua prestazione peggiore nei centri tra i 50 e i 100 mila abitanti, dove conserva solo il 70% dei voti di Veltroni perdendo 456 mila elettori. In particolare il PD in quella fascia conserva solo il 68% dei voti rispetto al 2008, perdendo in termini assoluti 412 mila voti.
Il Partito Democratico si presenta come una forza in grosse difficoltà ad uscire dalle zone rosse. Questo emerge molto bene dalla nostra mappa elettorale (v. immagine). Per dare dei “numeri”: le 10 province dove il PD raccoglie il maggior numero di consensi sono tutte tra Emilia Romagna e Toscana. La prima provincia fuori da queste due regioni è Terni, in 14° posizione, ed è comunque parte integrante della “zona rossa”. Il centrosinistra strappa le grandi province urbane del Nord (Torino e Milano, ed è grazie a Milano che il centrosinistra tiene l’82% dei voti di Veltroni in Lombardia) e del centro (Roma, che porta in dono il premio del Lazio); ma per il resto, nonostante la grande crisi del centrodestra non esce dai suo confini storici (il TAA è stato portato “in dote” dalla SVP, non è un vero cambiamento). Al Sud è il tracollo: -32% dei voti, persi 8 punti su Veltroni, che già qui andò male. Bersani arriva al 25%, largamente superato da Berlusconi. In Sicilia il centro-sinistra è la terza coalizione, con il Pd ridotto sotto il 20%. Un terzo dei voti viene perduto. In Campania il PdL privato di Cosentino sorpassa i democratici di 400 mila voti. Persino a Napoli città, seppur di poco, Berlusconi sconfigge il centrosinistra. In Puglia, a sorpresa, il centrodestra ottiene una grande vittoria e mostra una tenuta impressionante: 64%, dieci punti meglio che nel resto del paese. In una regione data per certa grazie a Vendola, il centrosinistra perde il 31% degli elettori in 5 anni.
Vendola si consola nelle grandi città, dove ottiene dei buoni risultati (4,4% nei centri sopra i 500 mila e 5,0% in quelli tra i 250 ed i 500 mila) . Curiosamente, nella sua Puglia, Vendola ottiene ottimi risultati nei comuni più piccoli (7%), mentre rimane sotto il 6% nei comuni con più di 100 mila abitanti, invertendo il trend nazionale che lo vede crollare nei piccoli centri. Questo però non basta al centrosinistra per recuperare il gap nei confronti del centrodestra nel Tavoliere.
Uno sguardo alla nostra mappa mostra chiaramente come SeL (come anche Rivoluzione Civile) sia ormai un partito meridionalista. “Cacciato” anche dalle zone rosse, dove ottiene solo un senatore (in Toscana). Ed ecco dunque che nessuna delle 10 province dove SeL ottiene i migliori risultati è a Nord di Roma. Addirittura, in Veneto, Vendola “patisce” l’onta di essere superato da FARE, la lista di Oscar Giannino, nonostante lo scandalo delle lauree inventate.
Berlusconi: come perdere 7 milioni di voti e rischiare di vincere le elezioni
Anche Berlusconi, come Bersani, è elettoralmente il peggior candidato premier del centro-destra nella Seconda Repubblica. Essendo però stato sempre lui, il paragone è con sé stesso. E così il quattro volte Presidente del Consiglio perde il 46% dei voti rispetto al 2008. Persino rispetto al 1996, quando corse senza la Lega Nord, risulta largamente ridimensionato perdendo 5.800.000 voti. La perdita non è uniforme sul territorio nazionale (benché non esistano regioni o province dove l’ex premier riesca a confermare i voti di cinque anni fa).
Il centrodestra, in proporzione, perde più nelle città sopra i 100 mila abitanti (soprattutto quelle nella fascia tra i 200 ed i 500 mila) che nei comuni più piccoli, considerando che nelle città maggiori il numero di schede valide aumenta rispetto al 2008. Se in questa fascia il centrodestra avesse mostrato la stessa resistenza che nei comuni più piccoli, sarebbe ora maggioranza alla Camera e avrebbe strappato il Piemonte al centrosinistra al Senato. A livello di tenuta, Berlusconi passa quindi dal 60% dei comuni inferiori al 53/54% dei consensi: in particolare, a crollare nelle grandi città è il PdL, che perde il 53% dei propri voti, mentre la tenuta sale man mano che la dimensione dei comuni diminuisce. Geograficamente, il PdL rimane un partito a forte trazione meridionale, nonostante proprio al Sud si concentri il calo maggiore di consensi. Le 10 province dove il principale partito del centrodestra ottiene i maggiori consensi sono tutte al Sud. Il perché di questo apparente paradosso è l’enorme quantità di consensi raccolta nel 2008. Non solo: pur tenendo meno che nel Nord (solo il 53% degli elettori riconferma la propria preferenza al PdL), la performance negativa del PD lascia al partito guidato da Alfano un ampio margine sul centrosinistra. Meno netto il rapporto con Grillo: l’avanzata 5 Stelle in Sicilia ci lascia con un testa a testa PdL/M5S per il “trono” di prima lista nel Mezzogiorno, vinto di misura dagli azzurri di Berlusconi.
Un punto sicuramente interessante che emerge da quest’analisi è la performance della Lega Nord nei comuni minori: 6,1% , oltre due punti sopra il risultato nazionale con una tenuta del 48% contro il 44% delle grandi città ed il 40% di quelle di taglia medio/grande. Andando più a fondo ancora vediamo che la Lega nei comuni minori di Lombardia e Veneto raggiunge rispettivamente il 15,8% ed il 12%. Siamo lontani dai fasti del biennio 2008-2010, ma il risultato rimane rilevante: nel Lombardo-Veneto rurale, il 14% circa degli elettori (660 mila persone) continua a fare riferimento alla Lega. Certo: sono la metà rispetto al 2008. Ed è vero che in Veneto patisce di più, perdendo 520 mila voti ovvero il 63% del suo elettorato 5 anni prima. Contro ogni aspettativa, in Lombardia regge meglio tenendo il 56% dei voti. Nonostante Renzo Bossi, Belsito, le lauree in Albania e l’alleanza con Berlusconi. Il vero tracollo avviene nelle regioni rosse, dove sembrava essere riuscita a mettere piede nel biennio 2008-2010. La morente Lega Nord (che arretra e perde per strada più di metà dei suoi consensi) è ancora in grado di parlare alle categorie produttive della provincia settentrionale, raccogliendo da sola oltre il 30% dei voti in 71 comuni del Nord-Italia, benché piccoli, ottenendo oltre il 10% in città importanti come Brescia, Bergamo, Varese e Como. E finisce sopra l’(ex?) astro nascente del centrosinistra, Nichi Vendola, pur parlando di fatto solo a metà del Paese.
Il nuovo centro italiano?
Che cosa dire della coalizione di Monti? Il Professore porta un valore aggiunto in termini di coalizione (+1.500.000 voti rispetto alla sola UDC nel 2008), ma finisce con il vampirizzare i suoi alleati. Da notare come la distribuzione del voto montiano sia abbastanza diversa da quella dell’UDC nel 2008, teoricamente la sua base di partenza. Manca la Sicilia (dove la coalizione di Monti non riesce a superare la soglia al Senato) ed è un elettorato decisamente più settentrionale di quello di Casini cinque anni fa. Se nel 2008 le dieci province dove le forze centriste erano più forti erano tutte al Sud, oggi nove sono al Nord e solo Avellino si conferma (diventando la provincia in cui l’UDC è più forte). Se al Nord-Ovest il rapporto Monti 2013/Casini 2008 fa segnare un +148% nei voti assoluti, con un picco di +164% in Lombardia (per un totale di 430 mila voti), al Sud questo si riduce ad un piuttosto misero +17%. In altre parole, il milione e mezzo di voti in più viene quasi interamente dal Settentrione. Ed è a sua volta concentrato nelle grandi città, scendendo via via che queste diminuiscono di taglia. Particolarmente deludente il risultato della coalizione montiana nei comuni inferiori del Mezzogiorno: rispetto ai 330 mila voti dell’UDC nel 2008, il Professore riesce a guadagnarne solo trentamila.
Nove milioni di grilli
Passiamo a Grillo. Quasi nove milioni di italiani hanno scelto il Movimento 5 Stelle. Una lista che nel 2008 non esisteva se non in forma embrionale in qualche comune, dove si presentava raccogliendo percentuali da prefisso telefonico. Ora è il primo “partito” del Paese, presentandosi al di fuori di centrodestra e centrosinistra, facendo saltare il bipolarismo italiano che aveva retto la Seconda Repubblica. Il voto del M5S si presenta come molto omogeneo: la differenza tra i comuni sotto i 100 mila abitanti e quelli è sopra è ridotta, entro il punto percentuale, una variazione molto inferiore a quella di centrodestra e centrosinistra. Il voto a Grillo sembra sfuggire a molti dei cleavage più noti nella letteratura di riferimento: città/campagna, voto passato, divisioni di classe. Chiaramente nessuna forza politica di un certo successo è mai stata mono-classe o esclusivamente urbana, ma nel caso di Grillo questo è ancora più vero.
Spostandoci sulla divisione geografica possiamo vedere come la variazione del M5S vi sia a livello provinciale dal 40,2% di Trapani all’8,3% di Bolzano, un range di trentadue punti circa (con una deviazione standard di 5). Prendiamo come termine di paragone il PD che ha raccolto circa lo stesso numero di voti di Grillo finendo dietro di un soffio. I democratici variano dal 44,3% di Firenze al 9,5% di Bolzano, un range di quasi trentacinque punti. La deviazione standard è pari a 6,2 punti. Anche togliendo Bolzano e Aosta, per ovvii motivi, le cose non cambiano. Il range del PD si abbassa a ventinove punti contro i ventitré del M5S. Le prime dieci province del M5S sono distribuite più uniformemente che quelle degli altri partiti: sei sono al Sud (tutte in Sicilia, dove il Movimento stacca il PD di 15 punti), due al Nord (in Liguria) e due nelle Zone-Rosse (nelle Marche). Abbiamo già visto come PD e PdL siano invece ristretti in specifiche zone geografiche.
Il movimento di Grillo pare quindi essere un “partito nazionale” molto più del PD di Bersani. I due dati (distribuzione geografica e voto urbano) ci restituiscono un’immagine del movimento di Grillo molto diversa da quella comune: non è un voto che si concentra nelle città, non è un voto con un retroterra culturale omogeneo come alcuni vorrebbero far credero, chi classificandolo come di estrema sinistra e chi come leghisti delusi (analisi che non tengono conto del fatto che nessuna delle due forze sopracitate ha mai raggiunto i 9 milioni di voti). Anche l’idea che il voto al M5S sia legato al titolo di studio o all’accesso ad Internet non sembra trovare conferma nella distribuzione territoriale. Per concludere, due ultimi elementi di riflessione: Il Movimento 5 Stelle alla Camera prende 1.400.000 voti in più che al Senato. Questo dato è chiaramente gonfiato dal “voto utile” pro-PD (o pro-PdL) che si è verificato nella Camera alta. Non è quindi il caso di dare percentuali sul voto degli under-25 partendo dal differenziale Camera-Senato. Il distacco rispetto alle altre forze è tuttavia talmente marcato da portare a una conclusione: il Movimento 5 Stelle è la prima forza politica tra gli Under-25 (anche se non possiamo dire precisamente di quanto), forse l’unica categoria sociale dove il movimento di Grillo ottiene consensi significativamente maggiori alla media. La seconda considerazione riguarda le elezioni regionali, dove il M5S prende 650 mila voti in meno rispetto alle preferenze espresse alle politiche: 650 mila persone hanno scelto di votare per i partiti tradizionali dopo avere votato, alle elezioni politiche, per un movimento che questi partiti li vuole seppellire. In termini relativi parliamo del 30% dell’elettorato 5Stelle: riportato su scala nazionale, vorrebbe dire 2.600.000 persone. Tutto questo nonostante le tre regioni al voto siano state interessate tutte da forti scandali a livello di amministrazione locale. È un segnale chiaro di sfiducia, quasi a prescindere, nei confronti della politica nazionale. Ed è un segnale ragionato, pesato e pensato. Non un semplice voto di protesta, ma un vero e proprio voto di condanna.
Bellissima analisi, complimenti!
Ottima analisi.
Davvero un’analisi interessante. L’ho letta cercando di capire a quale “parrocchia” politica appartenga il redattore e non sono francamente riuscito a capirlo. Buon segno.
Anche Ilvo Diamanti fa analisi interessanti, ma se lo si legge si capisce al volo dove… batte il cuore.
Si continua ad analizzare il voto e ci si dimentica di sviscerare il sistema politico nella sua complessita’. Un sistema politico che si disintegra di fronte alla forza della rete perche’ non adeguato ad essa. Penso che la presenza di una icona NESSUNO DEI SIMBOLI precedenti nella scheda elettorale avrebbe raccolto una percentuale di voto superiore al 15 % riducendo in modo significativo il voto al M5S.
Pertanto la responsabilita’ di PD e PDL, e di MONTI, e’ enorme per non aver adeguato il sistema alla modernita'( non solo la legge elettorale, ovviamente). Mi auguro che i partiti politici si adoperino da subito a modificare la relazione con il popolo sovrano, per evitare il perdurare di situazioni ingestibili sotto il profilo democratico.