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Gli errori di Mario Monti in campagna elettorale

Per almeno un mese la campagna elettorale più commentata e discussa è stata quella del premier uscente. Una campagna partita in ritardo rispetto agli avversari, con un investimento economico importante, che sembrava ad un certo punto poter portare Mario Monti a insidiare Silvio Berlusconi al secondo posto, con un risultato elettorale al di sopra del 15%, staccando Beppe Grillo.
L’insuccesso elettorale di Monti e della sua lista, tuttavia, nasce da errori strategici e comunicativi.

IL POSIZIONAMENTO POLITICO DEVE ESSERE COERENTE

Il messaggio deve essere coerente con la storia del candidato. Nel caso di Monti, questo non è successo. Un politico che ha costruito la propria credibilità sull’essere “fuori” dalle logiche di partito, quando fonda un proprio partito diventa come gli altri. L’idea di appellarsi al “civismo” già nel nome per distaccarsi dai partiti tradizionali è stata corretta ed efficace, ma non è bastata a coprire l’alleanza con Fini e Casini, che in questa tornata elettorale hanno rappresentato pienamente “la solita, vecchia politica”. Non è un caso che al Senato la lista unica abbia perso circa un milione di voti rispetto alla somma delle liste alla Camera: è verosimile pensare che diversi elettori di Scelta Civica si siano allontanati dal Terzo Polo al Senato anche per non votare una lista che comprendesse candidati di Unione di Centro e Futuro e Libertà.

ANCHE I CONSULENTI AMERICANI IN UN MESE POSSONO FARE POCO (ANZI, SPECIALMENTE GLI AMERICANI)

L’ingresso di David Axelrod, l’architetto delle vittorie elettorali di Barack Obama, nello staff montiano ha occupato le prime pagine di tutti i giornali italiani. Significava che Monti stava puntando in alto, che era disposto ad investire molto nella propria campagna elettorale. Per alcuni, era la prova che Obama stesse tifando per il Professore. Per altri – prevalentemente consulenti politici e “malati” di politica americana come chi scrive – era motivo di entusiasmo. Alla fine, tuttavia, il suo lavoro non ha portato un valore aggiunto importante per il premier. E la cosa non sorprende. Non è stato un fallimento di Axelrod. Semplicemente, nessun consulente può cambiare le sorti di un candidato riscrivendo la strategia un mese prima delle elezioni. In particolar modo se il consulente è americano e quindi non conosce alla perfezione lo scenario politico del Paese in cui lavora. Le tecniche che funzionano in America non è detto funzionino anche in Italia, e Axelrod non ha avuto il tempo di studiare quali strumenti si adattassero meglio alla comunicazione politica del nostro Paese.

Ad esempio, l’umanizzazione del candidato è un fattore positivo in campagna elettorale: in America serve ad avvicinare il politico ai cittadini. In linea di massima lo è anche in Italia, ma nel caso del Professore questa umanizzazione si è scontrata con il profilo del candidato, la cui forza risiedeva nel rigore, nella sobrietà, nella serietà. Non è da Monti adottare un cagnolino in diretta televisiva chiamandolo “Empy”: ha dato l’idea di essere un candidato costruito apposta per la campagna elettorale.

IL TARGET DI RIFERIMENTO VA INDIVIDUATO CON PRECISIONE

Il posizionamento di Scelta Civica e della coalizione terzopolista è stato inspiegabilmente instabile: si è partiti da un “estremo centro” di ispirazione casiniana per poi spostarsi verso il PPE, ovvero il centrodestra europeo, continuando tuttavia a fare l’occhiolino alla coalizone progressista guidata da Pierluigi Bersani. Mario Monti prima si è detto disponibile a governare con un centrodestra senza Berlusconi, poi invece ha detto che avrebbe governato con Bersani ma “senza Vendola”. Così facendo ha fidelizzato il segmento elettorale centrista e liberale, ma ha al contempo allontanato gli elettori dei due principali poli elettorali, ovvero i due target possibili per la sua lista al fine di allargare il proprio consenso elettorale. Un errore strategico grave, in un Paese dove i moderati attratti da un terzo polo sono sempre stati una esigua minoranza. Soprattutto, un errore grave in uno scenario che mostrava un segmento di elettori di centrodestra delusi da Silvio Berlusconi in attesa di trovare una nuova strada da percorrere: poteva essere la strada del centrodestra europeo incarnata da Monti, poteva essere la strada della destra liberista e libertaria tracciata da Giannino. Alla fine, questi elettori hanno scelto in parte di tornare a casa, convinti dalla grinta e dai messaggi antitasse di Berlusconi, e in parte dall’idea di esprimere un voto “contro”, votando il MoVimento 5 Stelle.

Il risultato elettorale della lista montiana, va detto, non è stato tragico: ha raccolto quasi tre milioni di voti in un solo mese di campagna elettorale. Ha cannibalizzato l’Unione di Centro e Futuro e Libertà ed è riuscita a recuperare qualche punto percentuale da entrambe le coalizioni principali. Tuttavia, questo risultato non è stato sufficiente a diventare “determinante” nello scenario politico italiano.

Le elezioni politiche del 2013 sono state un momento di rottura nella storia politica italiana, una rivoluzione elettorale nella quale una lista nuova, ed innovativa, avrebbe potuto sfondare.

Ma Mario Monti è “salito” in politica come leader del Terzo Polo, ed è uscito dalle urne da capo del Quarto Polo.

Giovanni Diamanti

Classe 1989, consulente e stratega politico. Co-fondatore e amministratore di Quorum, ha lavorato ad alcune tra le più importanti campagne italiane, tra cui quelle di Debora Serracchiani, Dario Nardella, Nicola Zingaretti, Vincenzo De Luca, Pierfrancesco Majorino, Beppe Sala. In realtà è un ragazzo timido che ama guardarsi la punta delle scarpe. Uomo dalla testa veloce, ha idee (confuse) in ordine sparso - così come i capelli.

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