L’Italia deve dire addio anche all’ultima A del paniere dei giudizi di rating delle big three americane (S&P, Moody’s e Fitch). Fitch a borse chiuse venerdì nel tardo pomeriggio rende pubblico il suo giudizio sul merito creditizio del paese, con un taglio di un notch, da A- a BBB+.
Tra le motivazioni che hanno portato alla decisione ha pesato sicuramente l’impasse politica emersa e persistente dopo il voto di fine febbraio. Ma è corretto sottolineare come non sia l’unico motivo, seppur un punto chiave. In un paese con un tasso di disoccupazione in costante crescita (11,7%) e un calo stimato del PIL per il 2012 vicino al -2,7%, con proiezioni negative anche per l’anno corrente (-0,6% con disoccupazione in crescita), pensare che un giudizio da A potesse essere mantenuto è quantomeno ingenuo. Per quanto il Presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, possa tentare di convincere il mondo e gli operatori finanziari che le riforme possano andare a compimento da sole, «con il pilota automatico», è difficile credere che l’incertezza che tutt’ora domina i palazzi della politica a 3 settimane dal voto non potesse raggiungere anche gli analisti di Fitch. Le riforme, a parere di chi scrive, non si fanno da sole.
Per quanto riguarda i mercati, ci aspetta quasi sicuramente una cattiva apertura soprattutto sui livelli dello spread con il Bund tedesco (chiusura venerdì in calo attorno ai 307 punti base). Ma tornando a richiamare le precedenti considerazioni, è difficile pensare che la decisione non sia già in buona parte scontata nei prezzi di mercato e negli atteggiamenti degli operatori di queste settimane. La flessione potrebbe in parte rientrare durante la settimana, salvo altri peggioramenti nello scenario.
A onor del vero, un’ultima A ci rimane concessa dalla canadese Dbrs. Sconosciuta ai più per le scarse dimensioni e quota di mercato (le tre regine americane coprono il 90% del mercato del rating), il suo giudizio di A low è in verità piuttosto importante dal momento che è riconosciuto, non con minor importanza, dalla BCE, tra le altre cose, per le operazioni di Repo con le banche. In altre parole, la banca apporta un titolo (di Stato per esempio) alla BCE ricevendo in cambio liquidità inferiore al valore di mercato del titolo in base ovviamente al tasso di interesse per questo tipo di operazioni (0,75%) e per un haircut correlato al rischio creditizio del titolo espresso dal giudizio di rating. Perdere anche ques’ultima A implicherebbe un aumento degli haircut applicati dalla BCE sui titoli di Stato italiani, portando a considerazioni totalmente differenti alle attuali da parte di banche ed investitori nel detenere in portafoglio e continuare ad acquistare i nostri titoli come finora (nonostante tutto) hanno fatto.
La tensione sui titoli sovrani tornerebbe ad infiammarsi, con ripercussioni sul costo di finanziamento del nostro paese (leggi: forte aumento dello spread) e una sostanziale deviazione dal sofferto cammino del pareggio di bilancio e la stabilità dei conti dello Stato. Quanto vale quest’ultima A?
Commenta