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Cyber War: la guerra del XXI secolo?

Si scrive “cyber war“, il nome mette un po’ di paura ma “guerra cibernetica” non fa lo stesso effetto. Di cosa si tratta? Per farla breve: i governi e le forze armate di tutto il mondo stanno sgomitando per controllare lo spazio digitale anche al costo di sacrificare altre voci di spesa relative alla difesa, in modo da difendere i propri territori (virtuali) e attaccare quelli rivali. Il cyberspace è anarchico e gli “incidenti” abbracciano un ampio spettro in cui si confondono atti di protesta e di criminalità fino a tentativi di invadere la sovranità statale altrui. Finora la critica mediatica e giuridica nei loro confronti non si è mai palesata in maniera eccessiva tale da considerarli “atti di guerra”. Forse perché non si vede alcuna morte o violenza fisica?

Alcuni Stati appaiono abbastanza compiaciuti della loro eccessiva audacia in tema di cyber attacks. Questo approccio sfrontato alle operazioni informatiche – ripetuti attacchi seguiti da smentite spesso inconsistenti – suggerisce una visione del cyberspace come un universo parallelo in cui le azioni non portano conseguenze nel mondo reale. Quest’ultima non sarebbe che un’ipotesi rischiosa. Ma le vittime di attacchi informatici sono sempre più sensibili a ciò che percepiscono come atti di aggressione, e sono sempre più inclini a reagire, con metodi convenzionali di condanna o minacciando di andare oltre. Non è altro che la veste del ventunesimo secolo del dilemma della sicurezza tra gli Stati e i loro interessi nazionali da difendere e promuovere.

Gli Stati Uniti, in particolare, sembrano aver perso la pazienza con il flusso di attacchi informatici mirati provenienti dalla Cina (Google e il New York Times sono solo due delle vittime di alto profilo) – questo, d’altronde, non aggrazia certo l’entourage diplomatico ed economico che i due stanno costruendo per la soluzione della crisi coreana

Mentre non vi è alcuna categorizzazione internazionalmente accettata sui diversi tipi di attività informatica – i singoli Stati hanno diverse definizioni – è evidente che alcuni episodi sono più gravi di altri. Ad esempio il Cyber Defence Centre of Excellence (CCDCOE) della NATO – una unità con base, non a caso, in Estonia, che ha conosciuto un massiccio cyber attack da parte della Russia nel 2007 – distingue tra “criminalità informatica”, “spionaggio” ecyber warfare.

È come se gli Stati cercassero di testare i confini nel magico mondo spaziale, con la certezza che tali confini non sono definiti. Visto che il diritto internazionale si sente sempre chiamare in causa, in tal caso c’è quasi un senso di illegalità data la mancanza di consenso su come trattare la guerra informatica da un punto di vista legale. Se gli Stati Uniti sono del parere che il diritto internazionale esistente possa essere applicato al cyberspace, Cina e Russia sono stati i paladini di un nuovo codice di condotta per affrontare i problemi unici che le operazioni informatiche creano.

La visione  convinta della maggior parte degli Stati occidentali è che il diritto internazionale ci azzecca eccome: la cyberwar deve essere regolata dalle – ambigue e vacillanti – norme esistenti sul diritto di auto-difesa e sulla condotta in conflitti armati. Punto.

Il nodo della questione è quindi non tanto il botta e risposta di attacchi (comunque di per sé grave) ma, ancor di più, il modo in cui gli Stati – o almeno quelli direttamente interessati – possono mettersi d’accordo (sic!) e configurare in maniera convinta un legame tra norme giuridiche e tali manifestazioni di spionaggio futuristico. Come dovrebbe rispondere uno Stato ostaggio di una minaccia cibernetica? Potrebbe ricorrere a un attacco militare convenzionale come extrema ratio? Esso rappresenta una forma di difesa riconosciuta dal diritto internazionale, a patto che sia “proporzionato”. Indubbiamente questa lacuna porterebbe a un sentiero di esacerbazione del conflitto, sconfinando in quello tradizionale a cui siamo abituati. I rischi di errore di calcolo o di escalation involontaria sono molto elevati se le due parti non condividono almeno quello che c’è di condivisibile: una visione comune sulle regole del gioco che stanno giocando.

Che accezione avrà la sicurezza, che tanto sta a cuore agli Stati, in un’arena cibernetica? Ciò che appare chiaro è l’emergere del più importante campo di battaglia dell’era dell’informazione, l’arena critica in cui le guerre future saranno vinte e perse.

Più la concorrenza nel cyberspace si accresce, tra Stati Uniti e Cina in particolare, più la comunità internazionale si avvicina a un bivio. Viene in mente uno scenario del passato: durante la guerra fredda, nella sua estensione dilatata ed eterea, i conflitti indiretti coinvolsero sottilmente forze “delegate” in Stati terzi. E così come questi velenosi intrecci non furono apertamente svelati nel tempo, il rischio di spilling over delle nuove ostilità ciniche di oggi non può che ingrassarsi. Siamo di fronte al nuovo far west occidentale? Gli Stati devono mettersi d’accordo sulla catalogazione giuridica delle loro stesse azioni subito, prima che sia troppo tardi. Devono scegliere, loro stessi, se questa guerra (perché di questo s tratta) debba rimanere fredda o calda.

(articolo pubblicato anche su Briciole politiche)

Ilaria Lezzi

Mi piace guardare al mondo, masticarne le dinamiche più sottili. Non mi accontento di quello che viene mostrato. Mi entusiasma giocar con le parole, a volte. Ma quello che più mi piace è prendere dimestichezza con i fatti giganteschi e, a caratteri cubitali, trasmetterli alla gente. Del mondo.
Laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l'Università del Salento, sono specializzanda in Politica e sicurezza internazionale nel Corso di Laurea Magistrale in Scienze Internazionali e Diplomatiche dell'ALMA Mater Studiorum.

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