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L’occupazione in Italia dal 1977

L’ISTAT ha pubblicato un prospetto in cui si riassume il trend dell’occupazione in Italia dal 1977 ad oggi attraverso le fasi dell’economia.

Ricordiamo, per una migliore comprensione dei numeri, che dal 1977 al 1992 circa l’economia è stata attraversata da una espansione del PIL anche se, soprattutto fino al 1984, accompagnata da un forte aumento della spesa pubblica e del debito, cui poi si è cercato di porre rimedio con un aumento dell’imposizione fiscale. Nel 1992 l’insostenibilità del debito, anche con la complicità dell’aumento dei tassi d’interessi tedeschi dovuti alla riunificazione, portarono a una svalutazione, conseguenti politiche di austerità e una recessione; a ciò hanno fatto seguito un certo rigore che ha portato all’entrata nell’euro, il crollo dei tassi di cui non si è approfittato negli anni, pur di bassa crescita, fino alla attuale crisi che parte dal 2009.

Guardiamo i principali grafici:



Quello che più desta sconcerto è il fatto che fino al 1998, nonostante siano stati anni di crescita del PIL (tranne il 1993) il tasso di occupazione sia rimasto sostanzialmente lo stesso con alti e bassi intorno al 51-54%, a livelli anche più bassi di quanto lo siano ora, in piena crisi.

È evidente come ci sia stata da un lato un aumento di produttività (cioè di quantità di prodotto per ora lavorata), ma soprattutto la crescita si trasferì interamente in rinnovi dei contratti con generosissimi aumenti di stipendio a coloro che già lavoravano, con il settore statale in testa.

Solo a partire dal 1998, in seguito alla legge Treu prima e alla legge Biagi dopo, risulta conveniente assumere nuove persone, con contratti più favorevoli alle imprese, spesso precari, soprattutto immigrati e donne, che quindi contribuiscono alla diminuzione della disoccupazione e dell’inattività; complice anche il fatto che dai tempi dei governi Amato e Ciampi, con la firma degli accordi di Maastricht, lo Stato non ha più potuto riversare spesa pubblica facile sotto le varie forme di pensioni, assunzioni nel settore pubblico o aumenti nei rinnovi contrattuali nello stesso campo, cosa che permetteva a molti inattivi di essere mantenuti dal familiare occupato o con pensione.

Nonostante quello che si sarebbe potuto immaginare, non è al Sud che questo aumento dell’occupazione ha inciso maggiormente: la quota di occupati risalì ai livelli pre-crisi del 1992-93, come vediamo nel seguente grafico ISTAT:

È vero che l’occupazione degli anni più lontani era spesso occupazione agricola o di industrie statali pesantemente sussidiate e quindi un po’ “artificiale”; ma è da notare che qui al contrario che nelle altre aree d’Italia l’aumento d’occupazione si è fermato già nel 2002 e non nel 2008, probabilmente a causa della ripresa dell’emigrazione interna, per cui sempre più giovani meridionali si sono trasferiti e hanno trovato lavoro al Centro-Nord; inoltre al Sud gli immigrati extracomunitari sono decisamente in numero inferiore che al Nord, e proprio gli immigrati sono stati tra i maggiori protagonisti della crescita di occupazione.

Parallelamente il maggiore mutamento è stato di genere: siamo passati da un tasso di occupazione femminile del 33% a uno di quasi il 48%, nonostante la crisi. L’aumento è stato massimo e più rapido nel periodo delle leggi Treu e Biagi ma è continuato anche dopo il 2008. Ciò è avvenuto, nell’ultimo periodo di crisi, “a spese” dell’occupazione maschile che è diminuita molto, e che anche durante la crescita del ‘98-2007 aveva solo recuperato le perdite dei primi anni ‘90, restando sempre ben al di sotto i livelli del 1977.

Vediamo i grafici relativi:

È un trend destinato a perdurare almeno fino a che non sarà colmato il gap tra uomini e donne, ora inferiore al 20% ma che nel 1977 era di ben 41 punti percentuali. Anche i dati sui laureati, in cui le donne hanno superato gli uomini, vanno chiaramente in questa direzione.

Anche l’aumento, sia in tempi di crisi che di espansione, dell’occupazione nel settore dei servizi (per esempio in quelli di cura alla persona) è un grosso elemento a favore dell’occupazione femminile, come dimostra il grafico sull’occupazione dipendente, che nei servizi è quella prevalente e in aumento:

Quello che questi dati ci insegnano è che non si può continuare a ignorare il tasso di occupazione come dato primario. Dal numero di persone al lavoro, prima ancora che dal loro reddito, dipendono tematiche importantissime come il livello delle pensioni, la possibilità di avere pensioni superiori a quella “sociale”, quella che oggi percepiscono milioni di italiani, soprattutto donne, mai transitati per il lavoro, quindi senza contribuzione. Il modello di società in cui si può garantire, anche a spese dei conti pubblici e dei lavoratori più giovani, un lavoro sicuro, garantito e con aumenti costanti aumenti solo a pochi soggetti, i capi-famiglia, è fallito.

L’ampiezza della base di occupati è importantissima, ancor più dello stesso livello del salario medio. Anche e soprattutto per i consumi interni, che vengono indicati come le principali vittime della recessione, e che costituiscono la componente maggioritaria del PIL. La Germania, con i tanto vituperati mini-jobs lo dimostra, ma questa è un’altra storia.

Gianni Balduzzi

Classe 1979, pavese, consulente e laureato in economia, cattolico-liberale, appassionato di politica ed elezioni, affascinato dalla geografia, dai viaggi per il mondo, da sempre alla ricerca di mappe elettorali e analisi statistiche, ha curato la grande mappa elettorale dell'italia di YouTrend, e scrive di elezioni, statistiche elettorali, economia.

3 commenti

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  • Darei un’occhiata alla disoccupazione giovanile, rispetto a quella totale, a partire dall’introduzione della legge Biagi ‘che ha reso più facile assumere nuove persone’. Trovo bizzarro che si continui a sostenere che i ‘privilegi’ di chi ha già un’occupazione impediscano a forze nuove di entrare nel mondo del lavoro, dal momento che diventano privilegi solo nel momento in cui vengono sottratti a chi un lavoro lo cerca, e i lavoratori più anziani non se ne sono ‘appropriati indebitamente’, come il ragionamento lascia ad intendere.

    • In realtà la disoccupazione giovanile era addirittura più alta negli anni ’80, e soprattutto l’inattività, perchè era “normale” e tollerato che giovani e donne non avessero un lavoro e dipendessero da altri, dalla famiglia di origine o la nuova (il marito per esempio). Il mio riferimento a quegli anni è soprattutto sul rinnovo esagerato dei contratti esistenti, non sul fatto che non si licenziasse i più anziani, ma che fossero pagati così tanto da concentrare su di sè parti di monte salario che sarebbero potuti andare a nuovi assunti.

  • Interessante notare come dal 1997 al 2007 sia aumentata sia l’occupazione maschile che femminile, segno che l’occupazione femminile non “ruba” posti di lavoro agli uomini durante una fase espansiva. Interessante anche il fatto che l’occupazione femminile sia aumentata durante la crisi, forse perché le donne sono in genere meno pagate degli uomini e più convenienti agli imprenditori.
    Non sono d’accordo però sul fatto della flessibilità, consiglio di leggere anche questo post:
    http://keynesblog.com/2014/05/16/perche-la-flessibilita-non-riduce-la-disoccupazione/