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Perché in Siria non è primavera (araba)

Mentre a fasi alterne di ribalta e oblio la crisi siriana entra nelle case degli italiani, cerchiamo di approfondire cosa è la Siria e quale è la sua forma statale al di là degli stereotipi.

Sappiamo già della divisione in Siria tra una minoranza dominante sciita alawita (11% della popolazione), concentrata a Nord-Ovest e sulla costa mediterranea (da cui ha origine anche la famiglia Assad) e la maggioranza sunnita (circa il 74% della popolazione), a sua volta comprendente non solo arabi (circa il 60%) ma anche turchi (4%) e curdi (10%), maggioritaria in generale nel Paese ma soprattutto nel Nord; a ciò si aggiunge la presenza di cristiano (10% circa), che hanno goduto della protezione durante il regime degli Assad.

Una divisione in fondo più estremizzata di quella presente in Egitto o Tunisia. Come mai allora il regime siriano sembra avere molte più cartucce da sparare e una capacità di resistenza maggiore?

Per rispondere a questa domanda bisogna tornare alle origini dello Stato siriano: alle condizioni in cui si è formato, dopo la fine del protettorato francese al termine della Seconda Guerra Mondiale e ad ancor prima, alla fine dell’Impero Ottomano che prima della Grande Guerra e dei domini coloniali inglesi e francesi, dominava gran parte del Medio Oriente.

Ebbene, da un lato, a causa della distanza maggiore, il governo ottomano sul Nordafrica era di fatto blando e mediato da molti capi locali; alcuni di questi cercarono a un certo punto di ottenere legittimità più dalle popolazioni locali che da Costantinopoli (i pascià egiziani, ad esempio) e a parte alcuni gruppi di élite dell’esercito ottomano a guardia di punti sensibili, crearono anche degli eserciti locali, e tutta una burocrazia civile e militare autoctona che sopravviverà, si poggerà e sarà a sua volta appoggiata da inglesi e francesi, e costituirà la spina dorsale dei futuri regimi autocratici tunisini ed egiziani: da Bourghiba a Nasser, da Ben ali a Mubarak. Tutti questi leader garantivano e consentivano il perpetuarsi di questa classe dominante; ma essa non dipendeva in toto da questi leader per la propria sopravvivenza, potendoli all’occorrenza sostituire, come accadde nel passaggio tra Nasser e Sadat prima, e poi tra lo stesso Sadat e Mubarak e tra Bourghiba e Ben Ali, senza una vera e propria guerra civile. E così, al momento delle rivolte in Egitto e Tunisia questa élite, rappresentata soprattutto nell’esercito da generali poco conosciuti ma potenti, hanno saputo liberarsi dei leader scomodi per perpetuare il proprio dominio. Grazie alla propria organizzazione, contrapposta alle divisioni tra laici e religiosi,  sono riusciti a rimanere influenti anche in seguito alle transizioni – si veda il recente caso della defenestrazione di Morsi.

Dall’altro lato, nei Paesi più prossimi a Costantinopoli, l’impero Ottomano mantenne invece un controllo più stretto: è il caso di Siria o Iraq, dove non fu permessa la nascita di apparati burocratico-militari autonomi, o l’affermarsi di capi locali sufficientemente forti. Complice di questa dinamica fu certamente anche la presenza di minoranze etnico-religiose più consistenti ed influenti: si pensi non solo ai curdi ma anche ai cristiani. Va ricordato che all’inizio del XX secolo le minoranze cristiane nel Levante erano molto rilevanti, e la loro importanza nell’economia e nella società superava la mera dimensione numerica, che all’epoca era comunque molto maggiore dell’attuale. Ecco perché, ancor più che oggi, non vi era un blocco uniforme, come quello arabo-sunnita, che raggruppasse più del 50-60% della popolazione.

L’intrecciarsi di motivazioni demografiche, etniche e geopolitiche portò al perpetuarsi di questa situazione di debolezza dell’identità locale, tanto più sotto la colonizzazione anglo-francese successiva alla Prima Guerra Mondiale che impedì scientemente la nascita di forti poteri locali.

Il colonialismo ebbe anzi la funzione di far emergere un diverso modello di ideologia e poi di Stato, caratterizzato dall’assenza di forti poteri tribali o militari, e che permise la nascita di un nazionalismo più moderno, analogo a quello europeo: laico, per la frammentazione religiosa di cui si è detto, ed urbano, essendo diffuso tra gli intellettuali o i commercianti delle città più che tra le tribù di deserto e campagna.

Fu il partito Baath a emergere, in Siria e Iraq, fin dalla fine del dominio coloniale francese e britannico, con la sua miscela di nazionalismo arabo, socialismo temperato da umanesimo islamico e cristiano, e opposizione a ogni fondamentalismo religioso, come ogni movimento nazionalista europeo ha sempre propugnato, proprio per evitare che conflitti religiosi dividessero il popolo arabo. Il primo ideologo riconosciuto dal partito Baath, Michael Aflaq, era un cristiano ortodosso di Damasco, e così molti ministri o generali dell’esercito siriano o irakeno.

Cosa ha a che fare tutto ciò con Assad, e con la guerra civile siriana?

Il punto è che questo tipo di regime nazionalista si basa necessariamente, e non potrebbe essere altrimenti, prevalentemente su un impianto emozionale e populista, su una sorta di mobilitazione permanente che mette al centro di essa il Capo, dietro il quale, come detto, c’è poco, e senza il quale non esiste un vero e proprio Stato con le sue strutture indipendenti. È il modello del sultanato, in cui l’unico modus operandi è la non separazione tra la figura dominante del leader (spesso tramandata in via ereditaria, sempre onnipresente sui manifesti e le immagini in tutto il Paese) e lo Stato stesso.

Anche quei quadri dell’esercito e i ministeri che non sono strettamente legati al Capo da legami ideologici o persino familiari, sono schiacciati tra questa maggioranza e gli antagonisti, spesso provenienti da etnie e fazioni religiose escluse da decenni dal potere (sciiti in Iraq, sunniti in Siria) e completamente estranei e con cui non potrebbero trovare compromessi, né tantomeno dominarli, come invece l’esercito egiziano ha fatto con i rivoltosi anti-Mubarak.

Per questo motivo l’odierno conflitto in Siria non può per ora che essere una prova di forza tra le due fazioni, ognuna con i propri appoggi, i punti di forza e di debolezza, senza che possa imporsi un’autorità intermedia o una élite.

Gianni Balduzzi

Classe 1979, pavese, consulente e laureato in economia, cattolico-liberale, appassionato di politica ed elezioni, affascinato dalla geografia, dai viaggi per il mondo, da sempre alla ricerca di mappe elettorali e analisi statistiche, ha curato la grande mappa elettorale dell'italia di YouTrend, e scrive di elezioni, statistiche elettorali, economia.

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