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L’accordo sulle riforme: i tre rischi

Giorni densi e difficili da interpretare, questi ultimi. In meno di 20 giorni, Matteo Renzi ha impresso accelerazioni a raffica: le tre proposte di legge elettorale, il jobs act, l’incontro con Berlusconi, l’annuncio dell’accordo sulle riforme approvato con il voto della (burrascosa) direzione PD di ieri.

Sul piano della comunicazione il vincitore è uno solo: Matteo Renzi; nessuno può dire il contrario. Il posizionamento scelto è evidente: proporsi come la politica pragmatica, veloce fino all’impazienza, tranchant nei ragionamenti e opposta ai bizantinismi e alle discussioni infinite della vecchia politica. L’accordo sulle riforme certifica questo posizionamento e oggi la forza comunicativa del segretario PD esce rafforzata.

Tuttavia, ci sono alcuni rischi in questo passaggio, che a mio avviso si farebbe bene a considerare, se non altro affinché la forza di Renzi possa durare nel tempo e non esaurirsi in una fiammata.

Il primo rischio ha direttamente a che fare con la sedimentazione del consenso. È possibile proporsi per anni contro la vecchia politica e poi fare un accordo che preveda liste bloccate? È possibile proporsi come l’alfiere del territorio e poi dare tutto il potere di nomina alle segreterie nazionali? È possibile criticare i tentativi di accordi con Berlusconi fatti dagli altri e poi catapultarsi a cedere in poche ore su punti nodali?

Oggi la forza della comunicazione di Renzi è al massimo e l’accordo sulle riforme rafforza la sua credibilità, ma solo perchè i dettagli della riforma interessano e sono noti a pochi e gli aspetti negativi non entrano nella vita quotidiana delle persone. Ma cosa succederà alle prime elezioni con la nuova legge, quando ci troveremo eletti alla Camera le nuove Minetti, gli avvocati del “capo”, i nuovi Scilipoti? È anche possibile che, quando questi nodi verranno al pettine, Renzi abbia già capitalizzato al massimo i valori positivi dell’accordo. Ma il rischio di un ritorno di fiamma a medio termine sulla sua coerenza e credibilità di leader ci sta tutto e andrebbe considerato.

Il secondo rischio riguarda più da vicino il merito della legge elettorale e i suoi risvolti. Renzi rappresenta la promessa di una nuova architettura nel sistema politico: più fiducia nella persona e meno nel partito, più attenzione alle biografie individuali e meno alle appartenenze, più spazio al locale e alle figure del territorio e meno alla politica “romano-centrica”.

Questa proposta dovrebbe tradursi in un preciso sistema elettorale: il maggioritario con il collegio uninominale, l’unico in cui le biografie dei singoli possono ambire a pesare qualcosa di fronte allo strapotere di chi fa le liste. Ma il recente accordo sulla legge elettorale va in tutt’altra direzione e ci dice che Renzi vede la leaderizzazione non come architettura di un nuovo sistema istituzionale basato su molteplici relazioni di fiducia personale “dal basso”, ma come l’utilizzo dei mezzi della vecchia politica (il “partito-moloch”) da parte di un manovratore legittimato dal legame con gli elettori. Credo che in questo vi sia un rischio di incoerenza di posizionamento.

Certo, il Renzi di oggi regge tutto, figuriamoci questi bizantinismi da “malati di politica”. Ma, alla lunga, anche l’autenticità della posizione più forte rischia di essere intaccata da comportamenti difformi e non coerenti.

Il terzo e ultimo rischio riguarda il partito. Torniamo per un attimo alle primarie dell’8 dicembre: molti hanno notato che la scelta musicale di Renzi (“I don’t care”, in chiusura del discorso di vittoria) rappresenta l’opposto del famoso “I care” di Don Milani scelto da Walter Veltroni per un congresso dei DS a Torino e assurto a simbolo di una certa epoca di militanza impegnata.

Non si tratta di una contrapposizione Renzi vs Veltroni, oggi più che mai vicini. Piuttosto in quella contrapposizione musicale, con un pizzico di provocazione, si può vedere il vero dato di quanto avvenuto con le primarie dell’8 dicembre, e cioè la netta contrapposizione creatasi fra iscritti al partito, quelli che care, e la platea degli elettori, quelli che don’t care, che vivono la politica con leggerezza e con una certa distanza da formule e rituali della politica.

La carica della rivoluzione renziana sta qui, nell’idea di dare voce a una vocazione diversa, più light, di militanza. Ed è una rivoluzione salutare, che non ha ritorno, ma che deve essere gestita con attenzione, cercando una formula per far convivere nel partito una dirigenza eletta da un certo mondo con una militanza che ha dimostrato di non conoscere nulla di quel mondo.

Tornando all’oggi, la spaccatura interna sulle riforme rischia di riaprire quella ferita, non di contribuire a chiuderla. Renzi farebbe bene ad occuparsene per tempo.

Michele Cocco

Michele Cocco è nato e vive a Valdagno (VI). Svolge attività professionale nel campo della comunicazione pubblica e del marketing politico-elettorale.
E' dottore di ricerca in sociologia presso l'Università di Padova e si interessa di organizzazioni politiche, organizzazioni di rappresentanza, comunicazione nella sfera pubblica e politica, metodologie della ricerca, sondaggi e ricerche socio-politiche.
Quando può, coltiva una discreta passione per il ciclismo, la montagna, la narrativa e la pasta di mandorle.

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