Lo scenario internazionale, negli ultimi mesi, è diventato particolarmente incerto e fluido. Si rilevano conflitti in diverse parti del mondo, persino vicino se non all’interno del continente europeo. In questo contesto, l’abbassamento vertiginoso dei prezzi del petrolio non ha fatto altro che aumentare l’incertezza nei mercati. Monete come il dollaro canadese, la corona norvegese e in particolare il rublo russo stanno pagando a carissimo prezzo l’indebolimento dei propri fondamentali macroeconomici. Addirittura il governo di Mosca dovrà varare un’importante manovra correttiva nei conti pubblici. È emblematico infatti vedere dal grafico come, a gennaio 2014, per un russo ci volevano 45 rubli in cambio di un Euro. A ieri, invece, ci vogliono ben 58 rubli: quasi il 30% in più.
La discesa del prezzo dell’oro nero è stata spiegata in larga parte dall’ultimo report dell’AIE (Agenzia Internazionale dell’Energia). Il trend è semplice da spiegare, ma va analizzato nel dettaglio.
La domanda è in sensibile calo, ai minimi da cinque anni. La crisi ha fatto la sua parte, le energie rinnovabili anche. Di fatto, si consuma meno petrolio. Dall’altro lato, l’offerta non è mai stata così alta come in questi mesi: dietro questo ragionamento c’è l’OPEC, detentore dell’80% delle riserve mondiali di petrolio, ma spiegheremo dopo anche questo trend.
Che cosa comporta tutto questo in termini di politica internazionale?
È chiaro che, da un punto di vista meramente economico, con un prezzo del petrolio così basso non conviene investire su fonti rinnovabili, sui biocombustibili e su risorse petrolifere alternative. In tale ottica, la parte del leone la fa l’Arabia Saudita, storico alleato degli USA. Come membro tra i più pesanti dell’OPEC, potrebbe promuovere un processo di riduzione della produzione del greggio, in modo da livellare i prezzi verso l’alto. Nella realtà questo non viene fatto, anzi: l’Arabia ha volontà di tenere basso il prezzo del petrolio per almeno quattro validi motivi. Il primo è di mantenere importanti quote di mercato in Asia; il secondo è ritardare, fino a quando sarà possibile, l’uso massiccio di energie rinnovabili e alternative al petrolio; il terzo è di indebolire gli storici rivali degli USA, in primis Russia e Venezuela: con un prezzo del petrolio sotto gli US $ 80 al barile, le economie di questi due Paesi saranno pesantemente ridimensionate nei prossimi anni. L’ultimo motivo, fondamentale, è fare in modo che l’Europa sia sempre meno autonoma dal punto di vista energetico. E che guardi al Medio Oriente più della Russia.
In tutto questo, una preoccupante latitanza politica dell’Unione Europea fa pensare alla necessità e all’urgenza di coordinare una vera politica energetica europea. In Norvegia, secondo numerose ricerche svolte in questi anni, ci sono essere giacimenti talmente grandi da poter ridurre enormemente le importazioni europee di petrolio. Finché però i prezzi sono così bassi, non conviene investire in trivellazioni, oleodotti e piattaforme. D’altro canto, abbiamo un disperato bisogno di aumentare la nostra capacità primaria di produrre energia: dal 2003 al 2012, abbiamo perso circa 140.000 migliaia di tonnellate di petrolio equivalente prodotto. Un dato molto preoccupante.
Riassumendo, nel breve periodo stiamo assistendo a uno spostamento dei vantaggi dai produttori ai consumatori, che hanno più risorse libere da spendere, in seguito all’abbassamento dei prezzi. Nel medio-lungo termine, però, questa situazione potrebbe causare maggiore dipendenza energetica ai cittadini UE, con conseguente aumento dei costi delle bollette e dell’energia in generale. E’ necessario prevenire questa situazione iniziando a ragionare su una vera strategia energetica europea che coinvolga da un lato un sempre maggior utilizzo delle fonti rinnovabili, dall’altro un utilizzo intelligente e consapevole – ma sempre maggiore – delle risorse di petrolio provenienti dal Nord Europa. Il trend lo possiamo decidere noi, stavolta.
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