Con un emendamento alla legge di Stabilità (il 42.73) il Governo Renzi ha reso operativo il cosiddetto “decreto SalvaBanche”, un provvedimento che recepisce le direttive europee sui salvataggi bancari.
Le prime imprese bancarie a subirne le conseguenze sono state le ormai note Banca Marche, CariChieti, Cassa Ferrara e Banca Etruria, nell’occhio del ciclone mediatico nonostante rappresentino complessivamente circa l’1% sul totale del mercato finanziario italiano.
La crisi finanziaria del 2009 ha avuto come principale effetto la crescita dei debiti sovrani di molti paesi europei, che hanno speso circa 800 miliardi di euro per salvare gli istituti di credito in difficoltà tramite il cosiddetto bail out. L’Italia, per ragioni di bilancio, non ha fatto ricorso a questo tipo di operazioni, anche perché le banche italiane, per quanto strutturalmente deboli, non erano state colpite così violentemente e direttamente dalla crisi partita dagli Stati Uniti. Le banche del nostro Paese, già gracili dal punto di vista patrimoniale, si sono semmai indebolite quando la crisi finanziaria, colpendo l’economia “reale”, ha ridotto la capacità delle aziende e delle famiglie di restituire prestiti e mutui. L’unico vero, grande salvataggio bancario operato dall’Italia è stato il salvataggio del Monte Dei Paschi di Siena, operazione che ha visto l’erogazione di 4 miliardi di euro all’Istituto di credito toscano (i cosiddetti “Monti bond“), restituiti peraltro in anticipo con tanto di interessi, e dunque facendo infine registrare un saldo positivo per le casse pubbliche.
All’epoca della crisi, una parte non marginale dell’opinione pubblica e delle forze politiche europee si dichiararono contro l’intervento pubblico per salvare banche messe in ginocchio da spericolate operazioni finanziarie messe in atto da irresponsabili manager americani pagati decine di milioni di dollari. Tuttavia, far fallire tutte le banche in difficoltà avrebbe comportato un collasso immediato e devastante dell’intera economia europea: così, una volta messo in sicurezza il sistema bancario, i governi dell’Eurozona e la Commissione Europea iniziarono a ideare un sistema di salvataggio più stringente per gli istituti di credito.
Oggi dunque, quando una banca europea fallisce, gli Stati di appartenenza possono solo “salvare” i dipendenti e i correntisti delle banche, spostando i debiti e i crediti deteriorati in società ad hoc: è questo il cosiddetto bail in.
Con il bail in i funzionari delle Banca centrale nazionale (nel nostro caso Bankitalia) commissariano l’istituto e provvedono a reperire le risorse necessarie al salvataggio, prima azzerando il valore delle azioni e poi, qualora ciò non sia sufficiente, anche delle obbligazioni subordinate (strumenti finanziari assai rischiosi per gli investitori, ma che essendo meno costoso dell’emissione azionaria è spesso utilizzato dalle imprese per finanziarsi); solo in seguito sarà azzerato il valore delle obbligazioni normali e ancora dopo, in un terzo ed eventuale passaggio, i commissari potranno reperire i soldi rifacendosi su quei conti correnti che superano i 100 mila euro. Gli azionisti, cioè i proprietari, essendo coinvolti nelle decisione strategiche delle banche scelgono liberamente di erogare finanziamenti, dunque con il nuovo bail in sono responsabilizzati nell’utilizzo delle proprie risorse private (le azioni); mentre chi investe in obbligazioni subordinate non partecipa direttamente al rischio di impresa ma intende, di fatto, rischiare una somma di denaro che in caso l’impresa bancaria vada bene gli garantirà guadagni maggiori rispetto alle obbligazioni normali.
Il problema delle quattro banche italiane salvate con il nuovo sistema del bail in è che, come raccontano molto risparmiatori, le banche erano solite vincolare l’erogazione di un mutuo o di un fido alla sottoscrizione di obbligazioni subordinate, al fine di capitalizzarsi ad un costo minore rispetto all’emissione di azioni. Ma questa pratica di erogare prestiti vincolati alla sottoscrizione di obbligazioni, ancorché subordinate, è illegale.
Poiché i cittadini che hanno denunciato questi veri e propri raggiri sono circa un migliaio (a fronte, però, di oltre un milione di correntisti, 200 mila imprese e 6 mila dipendenti tutelati) il Governo starebbe cercando una doppia soluzione: in primo luogo si cercherà attivare degli arbitrati, cioè canali giudiziari più rapidi per far sì che le persone effettivamente raggirate possano rifarsi rapidamente sui responsabili; nel frattempo il Ministro Padoan starebbe già cercando di rimborsare almeno in parte i risparmiatori colpiti con 100 milioni di euro attinti dal fondo di garanzia che le banche con le proprie risorse hanno creato in questi anni per far fronte a situazioni simili.
A cura di Giovanni D’Anna e Lorenzo Rotella
Nonostante l’argomento sia ostico e’ reso fruibile a tutti.