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L’anno del referendum (e dell’Italicum)

Il 2016 sarà un anno cruciale per gli sviluppi in vista delle prossime elezioni politiche. Da una parte a ottobre si terrà il referendum costituzionale sulla riforma Boschi, caricato dal governo e dal Presidente del Consiglio di una valenza politica di primo piano. Dall’altra a luglio entrerà in vigore a tutti gli effetti il nuovo sistema elettorale, il cosiddetto Italicum, e da allora la pistola delle elezioni anticipate sarà carica (e nelle mani di Matteo Renzi). Per non parlare inoltre delle amministrative di giugno, anch’esse di grande rilevanza vista l’importanza delle città in cui si andrà a votare.

Riguardo alla sfida fondamentale di quest’anno, il referendum, l’opinione degli italiani rilevata negli ultimi due mesi da cinque istituti demoscopici diversi tende verso una netta approvazione della proposta. I “sì” alla revisione costituzionale batterebbero i “no” in proporzione di due a uno in quasi tutti i sondaggi. Sarebbe quindi una chiara vittoria per Matteo Renzi.


Quello che colpisce però è quanto sia alta la quota di indecisi o di elettori che al momento non si recherebbero alle urne. Questo dato oscilla tra il 53% del Centro Italiano Studi Elettorali (CISE) e il 63% registrato da Demopolis. Quindi una maggioranza ampia di italiani non hanno un’opinione chiara o non sono interessati a manifestarla. A questo si aggiunge un altro dato interessante: la divisione a livello partitico.

Il sondaggio CISE ci fornisce uno spaccato delle opinioni degli elettori dei vari partiti. Da una parte abbiamo le forze per le quali la riforma Boschi è essenzialmente positiva, come il Partito Democratico e Forza Italia, dall’altra gli elettori di Sinistra Italiana che in maggioranza voterebbero “no” al referendum. Per tutti gli altri partiti vi è una più lieve propensione verso il “sì”. Ciò che colpisce è che proprio presso gli elettori di Movimento 5 Stelle, Lega Nord e Fratelli d’Italia la quota di indecisi o astenuti è particolarmente ampia. Obiettivo chiave per le opposizioni, che avversano strenuamente il progetto di revisione, sarà “politicizzare” il referendum: un “no” alla riforma Boschi sarà un “no” a Renzi. Messa così, il margine di vantaggio del “sì” potrebbe assottigliarsi, parallelamente ad un aumento della partecipazione. Curioso il fatto che proprio Renzi abbia deciso di alimentare questo sviamento dal tema proprio della consultazione (le modifiche alla Carta Costituzionale) per portarlo sul piano di un giudizio complessivo dell’azione di governo, aspetto assai più insidioso. Specie in un momento in cui la fiducia nei confronti del premier e il consenso nei confronti del PD oscillano fra il 29 e il 32%. A questo si aggiunga che alcuni aspetti della riforma (riduzione del numero dei senatori e abolizione delle loro indennità, fine del bicameralismo paritario, abolizione del CNEL, obbligo di discussione delle leggi di iniziativa popolare) godono di un consenso abbastanza trasversale, a differenza del giudizio sull’esecutivo in carica.

Nel caso in cui il referendum fosse approvato, l’Italia si troverebbe ad avere una seconda camera semi-elettiva. Infatti si avrebbero 26 senatori non eletti (i 21 sindaci e i 5 nominati dal Capo dello Stato) e 76 indicati dagli elettori durante le elezioni regionali. Questo ci porterebbe verso una situazione simile a quella della Spagna (dove però vi sono vere e proprie elezioni per una parte dei senatori, non mediata dai consigli regionali come nel nostro caso), del Belgio e della Bielorussa. Diverso sarebbe stato il caso in cui i consiglieri regionali avessero scelto autonomamente i senatori, portando di fatto a un senato non elettivo (come ad esempio in Francia, Germania, e, per nomina o eredità, nel Regno Unito). L’attuale situazione di elezione diretta dei senatori è presente in Italia e in pochi altri paesi europei, indicati in rosso della mappa. Da sottolineare invece come l’opzione preferita sia la totale assenza di una seconda camera: non solo dai paesi scandinavi, ma anche da numerose repubbliche dell’ex blocco sovietico, e da piccole democrazie mediterranee (Portogallo, Grecia, Cipro).

Ma come sarebbe il nuovo Senato di Renzi e Boschi? Ne abbiamo calcolato la composizione, pur tenendo conto che le modalità concrete di attribuzione dei seggi non sono state ancora definite nel dettaglio [1]. Ma se gli equilibri tuttora presenti fossero confermati la situazione sarebbe quella illustrata nel grafico.

Grazie alla propria forza a livello regionale e comunale, il PD sarebbe il primo partito con 48 senatori. Le opposizioni sarebbero invece divise in tre forze grossomodo equivalenti: FI, M5S e Lega. La Sinistra [2] si fermerebbe a 5 seggi, come 5 saranno i senatori di nomina presidenziale. Negli “Altri” troviamo invece due senatori della SVP altoatesina, un regionalista valdostano, un MPA, un UDC e un indipendente del Trentino. In ogni caso, anche se il PD non avesse la maggioranza nella nuova camera delle autonomie, non sarebbe un problema: la fiducia per formare un governo e la maggioranza necessaria per l’approvazione della maggior parte delle leggi gli deriverebbe da un’ipotetica vittoria alla Camera dei Deputati con l’Italicum.

Diventa quindi saliente stabilire i rapporti di forza alla Camera. Per farlo abbiamo simulato un’elezione con percentuali di voto uguali all’ultima media 2015: PD al 31,7%, Lista unica di centrodestra 30,6%, M5S 27,5%, Sinistra Italiana 3,8%, Area Popolare 2,8% [3]. Ipotizziamo, in questo caso, che il PD vinca al ballottaggio.

Il Partito Democratico otterrebbe i canonici 340 seggi del premio di maggioranza (di cui 6 ottenuti in Trentino Alto Adige fra collegi uninominali e lista proporzionale). Le altre formazioni si spartirebbero proporzionalmente i seggi destinati alle opposizioni, cui si sommano quelli per il Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta ed Estero. È importante sottolineare come tali numeri non cambierebbero granché in caso di vittoria della lista di centrodestra, e neanche in caso di accesso al ballottaggio, e successiva vittoria, del partito di Grillo. Insomma, come è noto in ogni caso il meccanismo è majority assuring, e in più c’è da aggiungere i seggi ottenuti nella circoscrizione Estero dal partito vincitore (6 nel nostro esempio).

Quello che può essere importante da rilevare è quanti deputati sarebbero eletti tramite le preferenze, e quanti tramite le liste bloccate (a cui sommiamo anche i collegi uninominali di Trentino e Valle d’Aosta). Nel nostro scenario gli eletti con preferenze sarebbero 290, pari al 46% dei deputati. Bisogna sottolineare come tale dato sia la stima minima, calcolata nel caso (improbabile) in cui non vi siano pluri-candidature (consentite dalla legge, fino a 10) da parte dei capilista bloccati in nessun partito che ottenga seggi. In caso di pluri-candidature infatti, dovendo il capolista scegliere una sola circoscrizione di elezione, automaticamente farebbe salire il numero dei deputati eletti con le preferenze nel proprio partito.

Nella simulazione emerge chiaramente anche come (sempre in assenza di pluri-candidature) solo il partito vincente, in questo caso il PD, abbia la possibilità di eleggere una fetta maggioritaria di deputati tramite le preferenze. Questo perché la sua quota di seggi ottenuti (340) supera di molto il numero di 100, numero delle circoscrizioni dell’Italicum, e quindi consente ai sovra-seggi di essere assegnati tramite preferenze. Questo al contrario non si verificherebbe per il M5S (“soli” 125 seggi) e il Centrodestra (135 seggi) che di fatto avrebbero una stragrande maggioranza di deputati eletti come capilista bloccati. Solo nelle circoscrizioni dove i due partiti di opposizione hanno risultati più consistenti (e soprattutto se si tratterà di circoscrizioni di taglia medio-grande, da 7 a 9 deputati), i loro elettori saranno messi in condizione di eleggere deputati con le preferenze. Questo meccanismo vale grosso modo per tutti e tre i partiti, indipendentemente da chi vincerà il premio: quello al governo avrà più dei due terzi dei deputati eletti con preferenze (come minimo), quelli delle opposizioni almeno un quinto.

Concludiamo con le zone di forza dei partiti. La mappa delle circoscrizioni dell’Italicum è stata colorata a seconda del vantaggio più o meno forte di una lista. Se esso supera il 3% il colore è più forte, nel caso in cui il partito abbia un vantaggio inferiore il colore è più tenue [4]. Si nota come il PD sia ovviamente dominante nelle regioni rosse, così come in alcune circoscrizioni urbane (Torino, Milano, Roma, Napoli). Il M5S vede le proprie roccaforti sulla dorsale adriatica da Ascoli a Brindisi, nel Lazio centrale ed in Sicilia. Il Centrodestra arriverebbe stabilmente primo in molte circoscrizioni del Lombardo-Veneto, a Latina e Caserta.

Simulazione Italicum

Ovviamente questa mappa non ci dice quanti siano i seggi spettanti a ciascun partito (non essendo l’Italicum un sistema uninominale), ma può dare l’idea dell’equilibrio di forze fra i partiti e di quali saranno le zone dove le opposizioni potrebbero eleggere deputati con le preferenze.

 

Note:

[1] In particolare, sono stati traslati a livello proporzionale i voti ottenuti a livello regionale rispetto ai seggi spettanti a ciascuna regione, attribuendo i seggi delle liste a sostegno dei presidenti (Maroni, Zingaretti, De Luca) al partito di appartenenza del presidente stesso. Per il sindaco da ogni Regione, in tutto 19, è stato considerato convenzionalmente il sindaco del comune capoluogo. Per le province autonome di Trento e Bolzano, sono stati attribuiti un senatore al PD e uno alla SVP.

[2] In cui abbiamo incluso i sindaci dei capoluoghi di Regione afferenti a quest’area: Pisapia, Doria, Zedda, De Magistris, Orlando (con tutti i caveat del caso per questi ultimi due).

[3] Si è deciso di inserire il centrodestra (FI-Lega-Fd’I) in un’unica lista perché tale coalizione si è presentata unita in 5 elezioni politiche su 6, e perché in tal caso i poli competitivi sarebbero veramente tre, in uno scenario tripolare competitivo inedito a livello nazionale.

[4] Si è ipotizzato uno spostamento di voti (swing) uniforme su base nazionale, basato sui risultati delle Europee 2014 (Pd -8,9%, M5S + 6,3%, Centrodestra -2,1%).

Andrea Piazza

Laureato in Politica, Amministrazione e Organizzazione all'Università di Bologna, lavora al servizio Affari Istituzionali dell'Unione della Romagna Faentina. Si interessa di sistemi partitici e riordino territoriale. Ha una grave dipendenza da cappelletti al ragù.

2 commenti

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  • Mi domando come fa l’autore dell’articolo a sostenere che gli italiani sono favorevoli alla riforma Boschi quando in tutti i sondaggi tra i contrari e gli astenuti (che come dice lui stesso la maggior parte sono di destra) si va da un minimo del 68% a un massimo del 77%. Mi sembra una lettura dei dati decisamente fuorviante e di parte, alla faccia dell’imparzialità.

    • I sondaggi riportati indicano chiaramente che ad oggi fra chi andrebbe a votare ed è sicuro del proprio voto i “Sì” vincerebbero con ampio margine. Viene anche riportato però come gli elettori decisi siano solo una minoranza e il governo rischi di perdere nel caso in cui molti elettori anti-Renzi uscissero dal silenzio nel quale (ad oggi) si trovano. Nessuna mistificazione nell’articolo. Poi lei è libero di credere che tutti coloro che NON andranno eventualmente a votare a ottobre siano contrari alla riforma, ma nei contesti elettorali le decisioni e le composizioni delle assemblee si determinano solo sulla base di chi esprime il proprio parere con il voto.