Oggi in Senato si voterà sulle due mozioni di sfiducia al governo, presentate dal Movimento 5 Stelle da un lato e dall’opposizione di centrodestra dall’altro: saranno il quarto e il quinto voto di sfiducia negli ultimi sei mesi, ma la forza parlamentare dell’esecutivo garantisce a Matteo Renzi di dormire sonni tranquilli.
Anche perché, dopotutto, ci è abituato. Dopo il primo voto di fiducia, d’obbligo, per l’insediamento del governo nel febbraio 2014, passato con 158 voti di scarto alla Camera e 30 al Senato, l’esecutivo ha passato la prova della fiducia per più di 50 volte: praticamente una volta ogni due settimane, inclusi i periodi estivi. D’altra parte, l’uso sistematico della fiducia per approvare qualunque provvedimento rilevante è uno dei tratti caratterizzanti sin dal primissimo anno di governo. Sin da subito Renzi usa la fiducia per instradare i provvedimenti che lo faranno trionfare alle Europee, tra cui la riforma degli “80 euro”, il coronamento della prima fase del suo piano di riforme, non scappa alla regola: fiducia sia al Senato che alla Camera, rispettivamente con 159 e 342 sì.
Passano i mesi e, per controllare una maggioranza riottosa, Renzi continua con la sua strategia, approvando con la fiducia la legge svuota-carceri, la riforma della pubblica amministrazione, il decreto competitività, per giungere nell’ottobre del 2014 al Jobs Act. Provvedimento cardine dell’attività di governo, e quindi, come per gli 80 euro, doppia fiducia: alla Camera le opposizioni disertano il voto, al Senato passa con 53 voti di scarto. A novembre a Montecitorio si vota la prima mozione di sfiducia verso il governo Renzi. Nello specifico, contro il ministro Alfano. Contestualmente, a Palazzo Madama c’è il decreto “sblocca-Italia”. Decreto, ovviamente, posto sotto fiducia. Ma Renzi procede come un treno: vittoria al Senato e, complice l’appoggio di Forza Italia, Alfano “salvato” alla Camera con 352 voti.
Anno nuovo, vita vecchia: nel 2015, ad aprile, è il turno dell’Italicum alla Camera (352 “sì” e 207 “no”), mentre a giugno tocca alla “Buona Scuola” al Senato (159 voti favorevoli), e si prosegue così anche nel 2016, con l’ingresso ufficioso in maggioranza dei verdiniani, che blindano voti chiave come quello della sfiducia al ministro Boschi di gennaio.
Ma alla crescita dei numeri in Parlamento non è corrisposta la crescita nel Paese. Anzi, se è vero che il voto di fiducia più risicato strappato da Renzi è stato proprio il primo, ai tempi in cui la fiducia del Paese nel premier invece era alta, quest’ultima nell’ultimo anno – in base alle rilevazioni di tutti gli istituti demoscopici – è crollata. Secondo IPR, infatti, si è passati da una fiducia media del 46% nel 2015 ad una odierna del 36%; per l’istituto Piepoli è al 39%, per Demos al 40%, il punto minimo da inizio mandato. Molto dipende ovviamente dalla posizione politica: l’azione di Renzi è apprezzata dal 78% degli elettori Pd, dal 25% tra quelli di Forza Italia, dal 9% dei 5Stelle e dal 7% dei leghisti. Analogo discorso per il governo in generale, la cui fiducia ha seguito quella del premier, rimanendo però (secondo la nostra Supermedia) sempre 2-3 punti percentuali più bassa. È solo nel mese di marzo che la forbice, a causa di un calo più marcato della fiducia in Renzi, si assottiglia, per poi riallargarsi ad aprile. Motivi del calo? Pesano gli scandali recenti, da Banca Etruria alle intercettazioni dell’ex ministro Guidi. Demos rileva come per l’86% degli italiani il governo Renzi ha qualche conflitto d’interesse, mentre per il 72% la vicenda Guidi è grave. Non va meglio al ministro Boschi, la cui fiducia secondo IPR da novembre a oggi sarebbe passata da un già negativo 22% al 12%.
Questo distacco tra la bassa fiducia registrata nei sondaggi contrapposta ad un’altissima fiducia presente in Parlamento, tuttavia, tarda a farsi sentire nelle urne. Il voto di domenica, cui ha partecipato meno di un terzo degli italiani (32,2%, esclusi i residenti all’estero), ha mostrato come sia difficile mobilitare un elettorato che probabilmente non gradisce la permanenza di Renzi al governo, ma sicuramente non ha ancora deciso cosa vorrebbe al suo posto.
Articolo pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 19 aprile a cura di Matteo Cavallaro e Davide Policastro
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