Le elezioni amministrative di domenica prossima saranno decise dal voto ai candidati sindaco. E questa non è una novità. Fin dal 1993 – anno in cui fu introdotta l’elezione diretta dei sindaci – la legge prevede che venga eletto il candidato che riceve più voti, al primo turno oppure (se non supera il 50% più uno dei voti validi, nei comuni con più di 15.000 abitanti) al ballottaggio.
Ma queste elezioni potrebbero sancire definitivamente una svolta “storica”. Potrebbe infatti venire meno, o quantomeno ridimensionarsi fortemente, il ruolo giocato da una delle variabili più “insidiose” (sia per i candidati che per gli addetti ai lavori) delle elezioni amministrative per come le abbiamo conosciute finora: il voto disgiunto.
Come è noto, il voto disgiunto consente agli elettori di esprimere una preferenza per un candidato sindaco diverso da quello sostenuto dalla lista votata. Quindi è possibile votare in tre modi diversi: solo per un candidato sindaco, barrandone il nome (cd voto “solo sindaco”); solo per una lista, barrandone il simbolo – e in questo caso il voto si “estende” automaticamente al candidato sindaco sostenuto da quella lista; oppure, sia per un candidato sindaco che per una lista. Per determinare il candidato sindaco vincente (oppure i nomi dei due candidati sindaco che andranno al ballottaggio) fanno fede solo i voti assegnati ai candidati sindaci. Anche alle elezioni regionali è possibile fare voto disgiunto, e anche in quel caso contano, in ultima analisi, solo i voti assegnati al candidato presidente.
In passato è avvenuto varie volte che venissero eletti sindaci che avevano ottenuto percentuali di voto superiori a quelli delle proprie liste. Un forte voto disgiunto in certi casi è stato determinante, e ciò è accaduto tipicamente quando una candidatura molto forte è riuscita a compensare una coalizione di liste non irresistibile.
Ma perché quest’anno le cose dovrebbero cambiare? È presto detto: dal 2014 sono cambiate le regole sulla disposizione grafica dei nomi dei candidati sindaci e delle liste sulla scheda elettorale. La modifica è stata introdotta all’art. 72 del TUEL (Testo Unico sugli Enti Locali) dalla Legge di stabilità 2014.
Le nuove regole stabiliscono che le liste a sostegno di un candidato sindaco devono situarsi non più di fianco al nome del candidato sindaco stesso, bensì al di sotto. Questo piccolo cambiamento, apparentemente “innocuo”, ha generato una vera e propria “rivoluzione” nella disposizione grafica delle schede elettorali. Vediamone un esempio, confrontando la scheda di un comune andato al voto prima e dopo la modifica dell’art. 72 del TUEL:
La differenza è evidente: nel 2012 (prima della modifica) l’area dedicata al nome del candidato sindaco occupava uno spazio molto più ampio sulla scheda elettorale; dopo il 2014, tale area si è ridotta ad essere un rettangolino molto basso e piuttosto largo; non esattamente una disposizione che “incoraggi” l’elettore a barrare il nome del sindaco.
Non si tratta solo di una suggestione: nei fatti si è realmente verificato un effetto sull’espressione del voto nei comuni. Tale effetto è misurabile, ed è ciò che abbiamo fatto con riferimento a tutti quei comuni capoluogo nelle regioni a statuto ordinario andati al voto nel 2014 e nel 2015 – ossia, dopo la modifica dell’art. 72.
Questi comuni (37 in totale, di cui 25 hanno votato nel 2014 e 12 nel 2015) hanno mostrato una tendenza comune: con pochissime eccezioni, la quota di voti “solo sindaco” sul totale dei voti validi si è drasticamente ridotta: dal 5,85% al 2,42%.
Il calo non è omogeneo, ma assume una diversa consistenza a seconda delle zone del Paese. Nei comuni che si trovano nelle regioni del Nord, ad esempio, si registra la differenza maggiore: a fronte di un 8,8% di voti “solo sindaco” sul totale dei voti nella tornata 2009-2012, nel 2014-2015 gli stessi comuni registrano una quota analoga del 3,44%. Il calo è vistoso anche nelle regioni centrali a nord del Lazio (le cosiddette “regioni rosse”), dove i voti “solo sindaco” scendono dal 5,58% al 3,44%. Nel Centro-Sud il calo è più limitato ma comunque presente (dal 3,72% al 2,19%).
Si dirà: ma il calo dei voti “solo sindaco” non equivale a dire che sia diminuito anche l’utilizzo del voto disgiunto. Perché vi sia voto disgiunto è necessario che oltre a un candidato sindaco si voti anche una lista. Come misurare allora il voto disgiunto? È possibile farlo calcolando la differenza (in percentuale) tra i voti andati ai candidati sindaco e quelli andati alle loro liste. Più precisamente, se si prendono in considerazione solo quei candidati sindaco che hanno “fatto meglio” rispetto alle loro liste, la differenza risultante dovrebbe fornirci un’idea – per quanto approssimativa – di quanto abbia pesato il voto disgiunto in un’elezione.
Ebbene, anche in questo caso i risultati segnalano una netta diminuzione del peso del voto disgiunto: nei comuni considerati si è passati da un valore medio del 2,91% ad uno del 2%.
Anche qui il calo è comune alla quasi totalità dei comuni considerati. E anche stavolta ci troviamo di fronte a numeri differenti tra le diverse zone del Paese: in particolare, al Nord si passa dall’1,11% allo 0,61%, nelle “zone rosse” dall’1,71 all’1,33% e nel Centro-Sud dal 6,03% al 4,05%.
Perché tutto questo è importante, guardando alle Amministrative di domenica prossima? Per rispondere è sufficiente guardare ai dati che si sono registrati nelle 4 città principali (Roma, Milano, Napoli, Torino) nella precedente tornata di Comunali. In tutti i casi la percentuale di voti “solo sindaco” aveva superato il 10% (con la sola eccezione di Milano, che si ferma poco sotto il 10%), con il record assoluto a Roma, dove nel 2013 ben il 15% degli elettori scelse uno dei candidati sindaco ma non votò alcuna lista – nonostante un numero record di liste e di candidati consiglieri. Soltanto Arezzo, tra i comuni qui presi in considerazione, ha fatto registrare un valore simile, nel 2011 (14,05%).
E per quanto riguarda il peso del voto disgiunto? Qui le cose sono un po’ diverse. In effetti, a Roma, Milano e Torino i candidati sindaco non fecero particolarmente meglio (o peggio) rispetto alle liste che li sostenevano, a conferma del fatto che probabilmente il consenso a ciascun candidato rispecchiava piuttosto fedelmente quello alla propria area/coalizione di riferimento. Ma c’è un’eccezione importante, ed è quella di Napoli: in questo caso, nel 2011 il peso del voto disgiunto toccò un incredibile 10,9%, quasi interamente attribuibili a Luigi De Magistris, che prese come candidato sindaco il 10,8% in più rispetto alle liste che lo sostenevano e beneficiando così di un voto disgiunto da record che gli consentì di arrivare al ballottaggio da outsider e – in seguito – di vincere contro Gianni Lettieri. Tra i comuni considerati, solo Campobasso (nel 2009, con il 10,2%) e Potenza (nel 2014, con il 9%) hanno registrato un peso del voto disgiunto di dimensioni comparabili.
Le nuove norme sulla disposizione grafica delle schede elettorali rischiano quindi di influire radicalmente su un fattore che in passato si è rivelato in certi casi decisivo per l’esito della competizione elettorale. Con il diminuire del peso dei voti destinati ai candidati sindaci, assume un ruolo molto più importante la competitività delle liste a sostegno del candidato. Lo stesso De Magistris in vista di questa tornata elettorale ha moltiplicato le sue liste: erano solo 4 nel 2011, oggi sono ben 12, più dei suoi avversari diretti (Valeria Valente del PD ne ha 11, Gianni Lettieri guida una lista di centrodestra composta da 10 liste).
Oltre a tutte le considerazioni che si potranno fare sulle implicazioni e i significati di quella che si preannuncia come la più importante tornata di elezioni comunali da molti anni a questa parte, sarà interessante verificare se davvero stiamo assistendo al declino (“incoraggiato” per legge) del voto disgiunto.
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