Nel Regno Unito mancano due settimane all’evento elettorale più importante dell’anno, e probabilmente più significativo per questa generazione di elettori. Il referendum in cui i cittadini inglesi saranno chiamati a votare sull’eventuale uscita del Paese all’Unione Europea (il cosiddetto Brexit) avrà infatti luogo giovedì 23 giugno. Un appuntamento cruciale, che in questo caso va ben oltre un semplice voto di approvazione o meno sull’operato del governo Cameron, dato che la “Brexit” sarebbe un evento senza precedenti e dalle conseguenze (quasi) del tutto imprevedibili.
Gli inglesi si sono già espressi una volta in merito, nel 1975, e il risultato fu che il 67,23% era favorevole a restare parte del mercato comune, con un’affluenza del 65%.
Due osservazioni al riguardo. In primo luogo, dagli anni Settanta, i principali partiti inglesi hanno quasi completamente scambiato posizioni sull’Unione Europea. Infatti, all’epoca erano i Conservatori i più europeisti, mentre il Labour era per lo più euroscettico. Ma nel 1975 il governo laburista guidato da Harold Wilson fece campagna per restare, pur con un governo diviso sull’argomento. Oggi, questa situazione è praticamente replicata in modo speculare a destra. Per quanto il Primo Ministro David Cameron, a capo di una solida maggioranza Tory nella Camera dei Comuni, abbia deciso di dare agli elettori la possibilità di esprimersi sull’appartenza all’Unione e sia alla guida della campagna per il “Remain”, non tutto il partito lo appoggia. Anzi, nemmeno tutto il suo governo lo appoggia, proprio come accadde a Wilson nel 1975. Gli elettori Tory sono in generale euroscettici, ma secondo un recente sondaggio di Opinium per l’Observer, starebbero ora dando ascolto al loro leader, con il 44% per il Remain (restare nell’UE), 40% per il Leave (uscire dall’UE) e 14% ancora indecisi. Da’altra parte, un sondaggio ancora più recente di Lord Ashcroft mostra il contrario, con il 53% di rispondenti che nel 2015 votarono per i Conservatori dell’opinione che “restare nell’Unione sia un rischio più grande che uscirne”. Non sorprende che la stragrande maggioranza degli elettori UKIP, il partito che ha come unico obiettivo politico quello di abbandonare l’Unione, sia per l’87% dello stesso parere.
Dall’altro lato dell’emisfero politico, il leader laburista Jeremy Corbyn non è senz’altro il classico europeista inglese con la passione per il free single market; ma è comunque a favore dell’UE, in quanto – a suo parere – un’Europa unita è più in grado di proteggere i diritti umani e creare un mondo con meno diseguaglianze. Un rapporto pubblicato dal Centre for Research in Communication and Culture della Loughborough University ha tuttavia riscontrato che, durante questa campagna, il ruolo del Labour nei media è stato molto marginale rispetto a quello dei Conservatori (forse perché gli scontri tra le più note personalità Tory fanno più notizia della riluttanza di Corbyn). Tutti gli altri principali leader sono per il Remain. Secondo il sondaggio di Lord Ashcroft, gli elettori Laburisti, Liberal Democratici e dello SNP, il partito nazionalista scozzese, sono infatti maggiormente propensi a ritenere che sia più rischioso uscire piuttosto che restare, rispettivamente al 62%, 68% e 65%.
In secondo luogo, pur avendo votato in favore dell’appartenenza all’UE nel 1975, i britannici sono sempre stati tra i più euroscettici del continente, come dimostrato regolarmente dai dati Eurobarometro. Si veda, per esempio, il trend degli anni 2004-2009, in cui la fiducia nelle istituzioni europee e l’opinione sull’appartenenza all’Unione sono sempre al di sotto della media europea.
La recente crescita dello UKIP è solo l’ultimo sintomo. Ma ora che le carte sono davvero sul tavolo, gli inglesi oseranno passare all’azione e votare per il Brexit, quando la posta in gioco è così alta?
Nel 2016 sono stati condotti circa un centinaio di sondaggi che mostrano un Paese spaccato, su diversi livelli.
Nelle medie mensili calcolate per YouTrend, la percentuale per il Remain ha sempre mantenuto un piccolo vantaggio sul Leave, ma nel corso dei mesi e a livello dei singoli sondaggi entrambe le parti hanno avuto qualche punto di margine l’una sull’altra, con percentuali più o meno elevate di indecisi.
Negli ultimi giorni, però, diversi sondaggi danno il Leave nuovamente in vantaggio. Per esempio, YouGov mostra che tra l’1 e il 3 giugno il 45% dei rispondenti si è espresso per il Leave, e solo il 41% per il Remain.
Bisogna notare che la fiducia riposta nei sondaggi stessi rimane bassa, dato che è passato solo un anno dall’ultima elezione in cui i sondaggi sbagliarono clamorosamente le previsioni (dando Tories e Labour testa a testa quando in realtà il Labour andò incontro ad una netta sconfitta). Stavolta c’è inoltre un forte dubbio circa l’affluenza degli elettori più giovani, in media nettamente più europeisti e che, secondo YouGov, potrebbero fare la differenza. La bassa affluenza dei giovani potrebbe avvantaggiare il Leave.
Le caratteristiche demografiche tipiche del Brexiter sono infatti l’età più elevata, un livello d’istruzione e di reddito più basso, e uno scarso interesse verso la politica. Gli uomini, inoltre, sono più euroscettici delle donne (a cui la campagna Remain si è specificamente rivolta con la tesi che molti diritti per promuovere l’uguaglianza di genere siano dovuti e legati alla UE).
Un altro livello su cui il Paese è molto diviso è quello geografico. Le quattro nazioni che formano il Regno Unito sono infatti di opinioni discordanti. Così discordanti che, ben prima di dare inizio alla campagna referendaria, l’ipotesi di tenere quattro referendum separati e di abbandonare l’Unione solo in caso di un unamine voto “Leave” è stata avanzata da più parti.
L’Inghilterra, che con l’84% della popolazione nazionale ha un peso molto più elevato, è la più euroscettica. Secondo un sondaggio Survation di aprile, la percentuale per il Leave è 37,3%, con il Remain al 41,2% e gli indecisi al 19,8%. La Scozia e il Galles sono più europeisti, con quest’ultimo beneficiario netto di fondi UE, soprattutto per l’agricoltura e per i fondi strutturali. Lo stesso sondaggio mostra il Leave al 24,1% in Scozia e al 31,7% in Galles, con il Remain rispettivamente a 56,4% e 46%, e gli indecisi al 17,7% e 21,7%. Il dibattito sulla permanenza nell’Unione è in Scozia collegato anche al dibattito sull’indipendenza. Cosa farebbe la Scozia in caso di Brexit? Cercherebbe un nuovo referendum per diventare indipendente? E se una Scozia indipendente si unisse all’Europa, con quale moneta lo farebbe?
Infine c’è il Nord Irlanda, il più pro-Europa, e il caso più particolare in questo referendum in quanto unica parte del Regno Unito a condividere un confine terreno con un altro paese UE. Il Nord Irlanda è un caso talmente strano che, di norma, i sondaggi nazionali del Regno Unito non lo includono nemmeno (la sopracitata Survation è un’eccezione), a causa del sistema politico completamente diverso. Il sondaggio di aprile mostra il Leave a un bassissimo 6,5%, il Remain al 59% e gli indecisi al 34,5%. Senza entrare nei dettagli della storia della relazioni complicate tra Londra e Belfast, un dettaglio che non va trascurato in questo contesto è che il Good Friday Agreement, il trattato di pace firmato dalle due parti nel 1998, prevede che in Nord Irlanda i cittadini possano scegliere se avere la cittadinanza britannica, irlandese, o entrambe. Una delle poche conseguenze certe in caso di Brexit sarebbe quindi un’impennata delle richieste di passaporti irlandesi da parte di cittadini del Nord Irlanda, che in questo modo potrebbero restare “europei”. Una situazione a dir poco curiosa.
In questa campagna referendaria non sono certo mancate le controversie. Una più di tutte quella che ha interessato la Regina Elisabetta, riportata dal tabloid The Sun come fortemente pro-Brexit, sebbene il monarca debba, in teoria, restare politicamente neutrale (le smentite da Buckingham Palace non si sono fatte attendere). O i commenti, destinati a far scalpore, del precedente sindaco di Londra Boris Johnson, che ha paragonato l’Unione Europea a Hitler per il suo voler creare un grande “superstato”. Altre cose sono semplicemente bizzarre, come il fatto che la campagna per il Leave si chiami formalmente “Vote Leave”, ma che il loro sito ufficiale si trovi al link “voteleavetakecontrol.org”: questo perché il comitato non ha comprato i rispettivi domini voteleave.com, voteleave.co.uk, voteleave.nete voteleave.org abbastanza in fretta, dando la possibilità a un espatriato belga, residente a Londra, di acquistarli e sbeffeggiarli per bene (provare i link per credere).
Ma, al di là di ogni facezia, la questione rimane seria. Il futuro del Paese è in gioco e, sebbene manchi così poco al voto, il caos regna sovrano. La situazione è così complicata perché, in realtà, non è affatto chiaro quali siano le conseguenze di un voto per il Leave. Cameron dovrebbe ricorrere all’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che regola l’uscita dall’Unione, e questo darebbe inizio alle trattative per stabilirne i termini. Ma oltre a questo, non si sa assolutamente nulla su eventuali relazioni tra il Regno Unito e la UE. Il Regno Unito potrebbe cercare di unirsi allo Spazio economico europeo, come la Norvegia, l’Islanda e il Liechtenstein; o cercare solo un accordo bilaterale come quello ratificato dalla Svizzera; oppure, cercare un accordo del tutto nuovo. E cosa succederebbe al libero movimento di persone e capitali? Nessuno sa rispondere, e infatti uno dei temi di cui più si è parlato è l’immigrazione, e cosa ne sarebbe dei cittadini UE già presenti nel Regno Unito. Per non parlare delle ripercussioni sull’economia inglese e quella del resto dell’Unione.
Un sondaggio di Lord Aschroft condotto negli altri stati membri mostra come, in tutto il continente, l’opinione pubblica sia nettamente in favore di continuare ad avere il Regno Unito nell’UE, con una media del 60% sul totale dei 27 stati.
Infine, le conseguenze per la politica inglese sarebbero enormi. Cameron dovrebbe in tutta probabilità dimettersi, e forse si tornerebbe alle urne per scegliere un nuovo parlamento, con un Primo Ministro pro-Brexit in grado di guidare il Paese in questa ipotetica e confusa transizione.
Alla fine, tutti questi dubbi fondamentali potrebbero pesare in favore del Remain, perché lo status quo, pur essendo certamente imperfetto, forse fa un po’ meno paura di un’incertezza quasi totale.
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