Il Regno Unito oggi si è svegliato in un’atmosfera di incredulità. La fantomatica Brexit non è più solo uno spauracchio, in seguito al referendum del 23 giugno dove il 51,9% dei cittadini ha votato per abbandonare l’Unione Europea, e solo il 48,1% per rimanere. Lo stupore per la vittoria del Leave si percepisce dovunque, dai commenti nei media alle conversazioni per strada. Eppure i numeri parlano chiaro: come annunciato nelle prime ore del mattino, Brexit è ormai una realtà.
L’ultimo sondaggio di YouGov, condotto nella giornata del voto e rilasciato alla chiusura dei seggi, dava il Remain in testa al 52%, ma non era un exit poll: l’incertezza era tale che non ne sono stati commissionati di ufficiali. Oggi YouGov ha commentato che l’esito è sempre stato troppo incerto per poter trarre conclusioni certe, e che il risultato è stato diverso dal loro ultimo sondaggio perché l’affluenza nel nord del paese è stata più alta del solito. Ovvero, in parole povere: si sono presentati alle urne più Brexiters del previsto. I sondaggi inglesi sono, quindi, ancora una volta poco affidabili, come nel caso delle elezioni politiche del 2015.
Che le diverse nazioni fossero in disaccordo già si sapeva. Ma non sono mancate le sorprese, a partire dal Galles, dove il Remain era sempre stato in testa, e dove si dava per scontato un forte europeismo, legato soprattutto ai fondi UE di cui il Galles è un netto beneficiario. Invece il Leave ha vinto con il 52,5%.
L’Inghilterra si conferma la nazione più euroscettica, con il Leave al 53,4%. Fa eccezione Londra: cosmopolita e con un’alta concentrazione di laureati, la capitale è la parte del paese che ha più da perdere in seguito al Brexit.
In Scozia e nell’Irlanda del Nord, il Remain ha confermato le attese, vincendo rispettivamente con il 62% e il 55,8%.
L’affluenza al 72% è stata tutto sommato buona per gli standard inglesi, più alta del 66% registrata alle elezioni 2015. I primi dati su un’affluenza alta sono stati interpretati con ottimismo, perché sembravano segnalare una forte partecipazione dalle fasce d’età più giovani (le più europeiste), ma l’ottimismo è presto scemato.
L’effetto si è fatto immediatamente sentire sugli stock market di tutto il mondo, e la sterlina è crollata ai minimi dal 1985 nei confronti del dollaro. Per quanto si sia un po’ ripresa in seguito, la situazione non è rosea.
Mark Carney, il governatore della Bank of England, ha rilasciato una dichiarazione per rassicurare i mercati, dicendo che, seppur non favorevole al Brexit, la banca si era preparata a questa eventualità e farà tutto il possibile per assicurare la stabilità dell’economia, britannica e non solo.
Ma l’argomento economico stavolta non ha fatto presa. La stragrande maggioranza degli economisti e dei businessmen si era schierata contro il Brexit. Come ha commentato il Financial Times, un consenso così vasto tra economisti è estremamente raro. Anche il Ministero del Tesoro (Treasury) si era schierato contro, prevedendo un calo del PIL in caso di Brexit.
Ma stavolta le ragioni dell’economia non sono bastate: stavolta ha stravinto il populismo.
La vittoria del Leave ha scatenato una crisi nel partito Conservatore: il Primo Ministro David Cameron, che era alla guida della campagna per il Remain, ha annunciato che lascerà il suo ruolo da party leader dopo la prossima party conference, di fatto dimettendosi. Spetterà quindi al suo successore, presumibilmente un Brexiter, invocare l’Articolo 50 del Trattato di Lisbona e guidare il paese fuori dalla UE.
I sondaggi condotti dal partito stesso danno Michael Gove, Ministro della Giustizia, in testa. Ma Gove non ha mai, almeno finora, espresso interesse verso una candidatura, e non gode di una grande popolarità tra il pubblico generale. Secondo i media sarebbe quindi Boris Johnson, parlamentare ed ex sindaco di Londra, il favorito per la leadership (e quindi la premiership). Johnson ha rilasciato una dichiarazione dai toni molto sobri, in cui ha cercato di rassicurare tutti, soprattutto i giovani, sul fatto che il Regno Unito continuerà ad essere una potenza europea, e il paese non è “meno Unito” o “meno europeo”.
Tutti i commentatori sottolineano come tutte le personalità del Leave coinvolte abbiano risposto con compostezza e sobrietà – tranne per ciò che riguarda Nigel Farage, leader di UKIP, che ha dichiarato che il 23 giugno debba diventare festa nazionale ed essere chiamato “Independence Day”. Farage ha inoltre commentato in modo piuttosto infelice che il Leave ha vinto “senza aver sparato un colpo”, quando l’assassinio della parlamentare laburista Jo Cox ha scioccato il paese solo una settimana fa.
La crisi politica potrebbe estendersi anche al Labour: due parlamentari laburisti hanno presentato una mozione di sfiducia verso il loro leader, Jeremy Corbyn, che dovrà ora essere discussa dal partito. Corbyn è accusato di aver combattuto una campagna “half-hearted”, poco convinta e poco convicente, e di essere quindi in parte responsabile per l’esito.
Cosa accadrà ora? Nell’immediato, nulla: il processo per lasciare l’Unione sarà infatti lungo e complicato. Dal momento che i referendum nel Regno Unito sono solo consultivi, il Parlamento dovrà innanzitutto ratificare la decisione presa dal popolo. Stando a quanto ha dichiarato Cameron, almeno fino ad ottobre l’Articolo 50 non verrà invocato, e solo allora avranno inizio le trattative ufficiali che vedranno il Regno Unito da una parte del tavolo e gli altri 27 membri UE dall’altra. Le trattative dovranno concludersi entro due anni, a meno che non venga approvata una proroga all’unanimità. Le leggi UE continuano quindi ad essere valide nel Regno Unito, così come il libero movimento di persone e capitali, e così sarà fino a quando le trattative non saranno concluse.
Le ripercussioni negli altri stati della UE non si faranno attendere, e molto probabilmente ci saranno altri paesi che vorranno svolgere un referendum come quello inglese. Le previsioni su come la UE sopravviverà alla Brexit sono più o meno tetre; si spazia da chi considera la Brexit una perdita ma sostiene che il continente si aggiusterà, a chi prevede un effetto a catena che potrebbe portare al crollo totale.
Ed ora, il Regno Unito stesso rischia di spaccarsi. La First Minister scozzese Nicola Sturgeon ha già annunciato che la Scozia darà inizio ai procedimenti per ottenere un nuovo referendum sull’indipendenza, per poter poi unirsi all’UE come nazione autonoma (da Londra) e sovrana.
Anche in Nord Irlanda c’è malcontento, e il partito Sinn Fein ha avanzato l’ipotesi di un referendum per potersi riunire all’Irlanda.
La situazione è ancora in corso d’evoluzione, e nell’arco di poche ore sono successe cose che sarebbero molto significative anche prese singolarmente. Ma, per quanto Boris Johson (il futuro premier?) abbia dichiarato il contrario, la prospettiva che si sta delineando è la fine del Regno Unito e dell’Unione Europea per come li conosciamo, e la nascita di un Regno Disunito in un’Europa sempre più fragile.
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