Con il ballottaggio del 19 giugno scorso, i torinesi hanno deciso di mettere fine a 23 anni di governo di centrosinistra votando Chiara Appendino del Movimento 5 Stelle come loro nuovo sindaco. Un risultato netto: 202.764 voti contro i 168.888 della coalizione progressista, ovvero oltre 9 punti di distacco. La sconfitta del sindaco uscente, Piero Fassino, è facilmente riassumibile in un’immagine che abbiamo diffuso subito dopo la fine dello spoglio.
Il voto a #Torino: Fassino prevale solo nei quartieri benestanti (centrali e collinari)#elezioni2016 #ballottaggi pic.twitter.com/s2IZZmpAqq
— YouTrend (@you_trend) 20 giugno 2016
Si vede chiaramente come il Movimento 5 Stelle sia stato capace di imporsi nelle periferie, laddove il centro città, invece, ha premiato il candidato del Partito Democratico. Dietro questa mappa, ci sono anni di cambiamenti sociali e politici che hanno reso la geografia elettorale di Torino assolutamente irriconoscibile. Per dare un’idea delle dimensioni di questa rivoluzione, abbiamo ricostruito la geografia dei risultati delle elezioni comunali del 2011, delle politiche del 2013, delle Europee del 2014 e dei due Turni delle amministrative 2016.
Questo articolo ha come obiettivo quello di ripercorrere il percorso che ha portato la città di Torino da Fassino ad Appendino. Per fare ciò prima descriveremo, numeri alla mano, le evoluzioni di questa mappa, poi andremo a vedere quale è il significato “sociale” di queste mappe. Per coloro che “too long; didn’t read”, i punti da ricordare, e che risultano validi solo per la città di Torino, sono i seguenti:
- Mutazione della ragione sociale del PD: la “golden share” del blocco sociale democratico passa dai classi popolari a quelle medio-alte, con in mezzo la parentesi delle Europee e del “Partito della Nazione” di Renzi.
- Espansione e consolidamento del Movimento 5 Stelle: Il M5S ha un profilo “popolare” stabile: la distribuzione non cambia significativamente tra le elezioni, pur aumentando notevolmente i voti.
- Proletarizzazione del centrodestra: le sacche di resistenza sono soprattuto in quartieri della periferia Nord, quella che, per varie ragioni, è più considerata dai torinesi come zona di disagio sociale.
- Forte mobilità sociale del voto: in 5 anni, i blocchi sociali di PD e centrodestra sono cambiati radicalmente, mentre il M5S si è espanso e consolidato sullo stesso zoccolo popolare delle prime partecipazioni. Questo indica una forte fluidità del voto tra un’elezione e l’altra. I “terremoti” non sono finiti.
Nel 2011, Fassino vinceva largamente nella periferia Nord e Sud di Torino. La tendenza era abbastanza chiara: il centrosinistra faceva meglio quanto più ci si allontanava del centro città, ottenendo il miglior dato (sugli aventi diritto) nelle zone immediatamente prima della periferia e con una netta predominanza della parte meridionale. La ricca collina, invece, restava “tiepida”: in un’elezione dove il centrosinistra accumulava oltre 29 punti di distacco sul centrodestra, 5 zone della collina votavano in maggioranza per il candidato di Forza Italia, Michele Coppola. L’unica zona di “periferia” che possiamo ritrovare tra le 10 peggiori per performance di Fassino 2011 è Villaretto, una frazione separata dalla città e da tempo zona di “disagio” a causa di una discarica abusiva e di una baraccapoli non troppo lontana.
Nel 2013, Bersani si presenta alle elezioni politiche e “vince” alla Camera, non riuscendo tuttavia ad assicurarsi la maggioranza al Senato. Torino, ancora una volta, si dimostra una città più a sinistra del resto del Paese: la coalizione guidata dall’ex ministro ottiene il 34,2% e supera il Movimento 5 Stelle di quasi nove punti, mentre il centrodestra finisce terzo e la coalizione guidata dal premier uscente Mario Monti si accontenta della quarta piazza. Si tratta, per il centrosinistra, di un arretramento notevole, una perdita di oltre venti punti. Le due mappe sono tuttavia pressoché identiche: la distribuzione del voto in città non cambia in maniera significativa, come possiamo vedere ulteriormente dal grafico seguente, che paragona la percentuale ottenuta dal PD nel 2011 (sempre calcolata sugli aventi diritto, asse orizzontale) e quella ottenuta nel 2013 (asse verticale) nelle diverse zone.
La correlazione tra il PD di Bersani ed il voto a Fassino due anni prima è forte e positiva: il calo è abbastanza uniforme e le zone di forza e debolezza restano le stesse. Alla fine, il calo è dovuto ad un insieme di fattori: la concorrenza di Monti sull’elettorato liberale nei quartieri centrali, l’arrivo del Movimento 5 Stelle nelle periferie e la scarsa attrattività nei confronti dei nuovi elettori (al punto che Bersani perde addirittura 85.000 voti rispetto a Fassino pur in un contesto dove le schede valide aumentano di 50.000 unità). Il centrosinistra passa da 255.000 a 170.000 voti. In termini assoluti, sono gli stessi voti ottenuti da Piero Fassino al ballottaggio qualche settimana fa. Verrebbe quasi da pensare che siano le stesse persone ad avere votato nel 2013 e tre anni dopo. Niente di più sbagliato, perché nel frattempo il PD cambia: Renzi prima ottiene la guida del Partito e, successivamente, del Governo. Si presenta alle Europee del 2014 in piena “luna di miele” e ottiene un risultato storico per la Seconda Repubblica: il 40,8%. A Torino città, questo vuol dire il 45,1%: senza considerare la sinistra di Tsipras, in parte alleata di Bersani un anno prima, il PD di Renzi guadagna voti assoluti in un contesto di forte calo dell’affluenza. Ci riesce, di fatto, “divorando” l’are montiana. Il neo-premier arriva così in centro città, riuscendo nel contempo a mantenere l’elettorato popolare di Bersani non ancora passato al Movimento 5 Stelle.
Il volto del PD inizia quindi ad allontanarsi rispetto a quello di Fassino 2011, come mostra il grafico qui sopra e come si intravede anche nella nostra gif. La retta di tendenza è ancora positiva, ma meno inclinata e capace di “spiegare” meno, come si vede dall’R2 inferiore (0,26). È su questa base che arriviamo, due anni dopo, alle elezioni comunali con Fassino in cerca di una riconferma per il secondo mandato. Prima però è importante sottolineare un dato: benché abbia rappresentato un enorme successo, il risultato delle Europee fu comunque un arretramento rispetto alle comunali precedenti. In particolare, già nel 2014 la perdita di voti è molto consistente nella parte settentrionale della città, mentre nelle zone di collina e precollina i voti addirittura aumentano rispetto a tre anni prima. A Falchera, Regio Parco, Vallette, Monterosa e Montebianco il calo è importante: un terzo dei voti è infatti scomparso. Anche a San Salvario (un tempo quartiere “a rischio”, ora zona di locali e studenti), ma mentre il calo a Torino Nord si spiega con l’arrivo del Movimento 5 Stelle, il dato del quartiere multiculturale è dovuto alla grande affermazione della Lista Tsipras che qui raccoglie il suo miglior risultato.
Arriviamo così al 5 e 19 Giugno 2016. Fassino finisce in testa al primo turno con poco più di 160mila voti, un arretramento rispetto alle Europee. Parte di questo arretramento è probabilmente dovuto alla diminuzione dei voti validi (circa 40.000 in meno) , ma l’effetto sulla geografia “democratica” di Torino è notevole ed è il compimento di un percorso iniziato nel 2014.
In centro città, Fassino migliora il risultato di Renzi mantenendo più o meno gli stessi voti assoluti, mentre in collina addirittura guadagna consensi. Curiosamente, migliora anche il risultato di Villaretto, unica zona dove questo accade, probabilmente dovuto al ricollocamento del campo Rom di Lungo Stura Lazio (nonostante questo miglioramento, al ballottaggio Appendino finirà in testa anche a Villaretto).
Il grosso del calo si concentra dunque, ancora una volta, nella parte settentrionale della città. Grossi quartieri popolari, simbolo dell’immigrazione dal Meridione ed ora, in parte, di quella da oltre confine. Mentre nel 2013 il calo del PD fu omogeneo, questa volta è geograficamente marcato ed aumenta all’allontanarsi dal centro. Due settimane dopo, la situazione è quella nota: Fassino vince in collina ed in centro ma perde nelle periferie, perdendo quindi la città. Il voto del ballottaggio e quello del I turno sono molto simili, ma si può notare un ulteriore aumento del divario centro-periferia.
In due settimane, Fassino arriva ad aumentare i propri voti assoluti in collina ed in generale in tutto l’oltre-Po. A questo si aggiunge San Salvario, a dimostrazione che il voto della “sinistra radicale” è andato probabilmente più al sindaco uscente che ad Appendino. Quest’ultima invece raccoglie su di sé tutto il centrodestra e in certe zone di Torino Nord arriva a sfondare il muro del 70%. Mai come in questo ballottaggio, la città è risultata spaccata in due. La sorpresa è che il centrosinistra è risultato vincente dalla parte opposta della barricata rispetto a quella che si sarebbe potuta immaginare anche solo 3 anni fa. Il voto del 2016, come mostra il grafico e l’R2 della linea di tendenza qui sotto (un bassissimo 0,03), è pressoché indipendente dal voto del 2011. La città è cambiata.
La distribuzione geografica del voto non è tuttavia che uno specchio della società. Appare evidente a tutti che gli abitanti del centro e quelli della periferia non appartengano alle medesime classi. In questi 5 anni il blocco progressista, che ha nel Partito Democratico il suo fulcro principale, non ha cambiato “solo” geografia: ha cambiato ragione sociale. Possiamo visualizzare questa evoluzione attraverso l’uso di una semplice analisi in componenti principali, uno strumento statistico che permette di “ridurre” le dimensioni. La lettura dei grafici seguenti è abbastanza semplice: variabili positivamente correlate sono vicine tra loro. Gli assi che si vedono sono da interpretare a seconda di dove si trovano le variabili/individui e descrivono il campione meglio che una sola variabile. Per esempio, nel nostro caso, anziché proiettare il voto per Fassino rispetto alla % di laureati, dirigenti, imprenditori, operai, eccetera, possiamo ipotizzare che ritroveremo tutte queste ultime informazioni su un solo asse, giacché il titolo di studio è un buon “predittore” della professione e queste caratteristiche sono probabilmente correlate tra di loro (laurea correlata positivamente con imprenditori e dirigenti, negativamente con le altre). Quindi da quattro variabili (e tre grafici), la speranza è quella di trovare un solo asse per indicare il livello di benessere della zona statistica. Per ottenere il risultato voluto, abbiamo quindi inserito tutti i dati elettorali dal 2011 al 2016 insieme ai dati sulla composizione sociale di ogni zona. È da notare che questa analisi non ci dice cosa queste classi votino ed esiste un ben noto fenomeno, chiamato fallacia ecologica, per cui il comportamento individuale (nel nostro caso, il voto) non sarebbe intuibile dall’analisi dell’aggregato. Per ragioni di comodità, sul piano individuato non mostriamo che un grafico con i dati più interessanti.
I due grafici riepilogano e confermano ulteriormente quello che abbiamo visto sino a qui e raccontano di un viaggio durato cinque anni dai quartieri popolari a quelli “borghesi”. L’asse orizzontale lo possiamo interpretare come un asse di benessere sociale, con a sinistra le professioni con retribuzioni più basse e titoli di studio inferiori. L’asse verticale invece mostra la correlazione con il non voto, che rappresenta il vertice basso. Per ovvie ragioni, essendo i le variabili politiche calcolate sugli aventi diritto, i partiti tendono ad essere nei quadranti superiori. L’asse verticale ci conferma cose già note come la bassa propensione al voto di operai e disoccupati. Nel 2011 e nel 2013 il voto democratico è ancora positivamente correlato con la presenza di pensionati, casalinghe, operai. Certo, si tratta di correlazioni, e il fatto che i voti siano distribuiti in maniera simile “oscura” l’enorme arretramento avvenuto tra 2011 e 2013 confermando solo un profilo sociale simile, ma più debole. Nel 2014 il passaggio verso l’altro lato del grafico. Si è tuttavia ancora verso il centro: ciò significa che, benché leggermente sbilanciato verso le classi più agiate, il voto per Renzi fu indipendente dalla classe sociale. Il Partito Democratico del 2014, per quanto riguarda la città di Torino, è il partito della nazione, capace di racchiudere le aspirazioni di cambiamento (ma anche la necessità di stabilità) dei differenti strati della società. Capace di integrare Monti e Bersani. Lo spostamento verso i ceti più agiati, tuttavia, non si ferma: un ulteriore pezzo del voto popolare, inferiore a quello perso nel 2013, va verso il movimento 5 Stelle. Il quale, dal 2011, conserva un profilo sociale stabile: avanza (eccezion fatta per il 2014) in tutti i quartieri e presso tutti gli elettorati, ma conserva le sue zone di forza presso l’elettorato popolare, in quartieri dove maggiore è la quantità di operai, pensionati, casalinghe, disoccupati. Ma questo non era di per sé sufficiente per la vittoria di Chiara Appendino. C’è un altro elemento da tenere in considerazione: in questi 5 anni anche il “terzo polo” della città, il centrodestra, cambia pelle. Perde terreno presso le classi medie e quelle più elevate, si “leghizza” e “proletarizza” sul tema della sicurezza. Diventa un voto di protesta, situazione facilitata dalla scelta di presentarsi diviso in tre candidati. In un certo senso, per quello che era il centrodestra borghese e liberale torinese, il candidato c’era ed era Fassino. Chi ha scelto di non sostenere il sindaco uscente, al ballottaggio si dirige sul candidato che più incarna la rottura: rispetto a due decenni di amministrazione di centrosinistra, ma anche rispetto al governo nazionale.
La storia del ballottaggio torinese del 19 giugno ci descrive quindi molto più di una semplice sconfitta. Guardando le mappe ed i dati abbiamo potuto osservare una modifica profonda della società torinese, che può forse applicarsi ad anche altre città in cui il Movimento 5 Stelle si è imposto. Torino ci racconta del cambiamento di ragione sociale del principale partito di sinistra in Italia. Il tutto in soli 5 anni, a causa dell’arrivo di un nuovo concorrente (i 5 stelle), di un nuovo leader (Renzi), delle esperienze dei governi di grande coalizione Monti-Letta-Renzi. C’è ancora un’ultima informazione che possiamo trarre da questo nostro viaggio nella prima capitale d’Italia, ed è una constatazione più generale. La mobilità sociale del voto pare elevatissima e, se alle ultime elezioni questa flessibilità ha premiato i 5 Stelle, alle Europee 2014 permise il grande successo del PD di Renzi. È difficile dire se “l’inversione dei poli” a cui si assiste a Torino rappresenti un punto di arrivo o solo una situazione temporanea. Dovendo scommettere, punterei sulla seconda: i “terremoti” nella politica italiana non sono ancora finiti.
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