Le Convention dei partiti americani sono uno degli appuntamenti codificati più importanti della stagione elettorale, e uno dei momenti in grado di orientare consensi e destini delle campagne presidenziali.
Ma come incidono sui sondaggi e sull’orientamento degli elettori statunitensi?
Partiamo dai tempi: quest’anno le due Convention si sono tenute a fine luglio, prima quella dei Repubblicani e poi quella dei Democratici, siccome è previsto per prassi che al partito che occupa la Casa Bianca spetti di tenere la sua convention per ultimo.
Per una serie di ragioni, che hanno soprattutto a che fare con le regole sul finanziamento delle campagne elettorali, le Convention quest’anno sono state relativamente presto, più di 3 mesi prima delle elezioni previste per l’8 novembre: non si erano svolte così presto dal 1960.
Il “convention bounce”
Dal punto di vista del consenso, che è poi quello di cui si interessa questa rubrica, l’effetto più rapido e visibile delle Convention si chiama “convention bounce”, “rimbalzo da convention”: generalmente, nei giorni della convention e in quelli immediatamente successivi il candidato presidente ottiene un “rimbalzo” positivo nei sondaggi. Secondo le analisi di FiveThirtyEight e altre stime, come quelle di Jeffery M. Jones di Gallup, il “rimbalzo” medio va dai 3 ai 6 punti percentuali.
Quanto dura questo bounce? Dipende. Ma di solito il suo effetto tende a scemare dopo alcune settimane, come si vede in questo grafico di FiveThirtyEight:
Un elemento interessante è che però, rimbalzi a parte, i sondaggi svolti dopo entrambe le Convention tendono a essere molto più indicativi di quelli condotti prima: come ricorda Nate Cohn di The Upshot, nessun candidato in testa nei sondaggi alcune settimane dopo entrambe le Convention ha mai perso le presidenziali (nel voto popolare, almeno: c’è il caso-limite di Al Gore nel 2000, di cui avevamo raccontato qui).
Ma quindi è finita? Ha vinto Hillary?
Non proprio. Da una parte perché stavolta, come dicevamo sopra, le convention si sono tenute molto più presto che in altri cicli elettorali (nel 2008 furono a inizio settembre, appena due mesi prima delle elezioni). Quindi c’è più tempo per fluttuazioni del consenso, iniziative di campagna elettorale, spot tv, notizie o scandali che possono alterare l’equilibrio della competizione.
E dall’altra parte perché questo 2016 sembra scritto per violare o mettere in dubbio certe regole non scritte della politica americana (quelle per cui per esempio Trump non avrebbe mai vinto le primarie dei Repubblicani).
Come hanno osservato diversi analisti, poi, se guardiamo l’evoluzione dei sondaggi sulle presidenziali di quest’anno vediamo che non sono stati stabili: anzi, è stato un altalenarsi di alti e bassi negli ultimi mesi – con Hillary a +10 in certi frangenti, e i due candidati appaiati in altri -: un trend che ricorda quelli tipici delle elezioni di prima del 2000.
Comunque – lo si vede anche dal grafico qui sotto, e l’ha fatto notare fra gli altri Harry Enten su FiveThirtyEight – l’impressione è che il vantaggio accumulato da Hillary Clinton dopo le convention sia rimasto sostanzialmente in piedi, fino a qui: a seconda degli aggregatori di sondaggi, la media delle ultime settimane le assegna fra il 44 e il 47%, con Trump fra il 37 e il 42%.
C’è solo il convention bounce?
No: come dicevamo è l’effetto più immediato e visibile delle Convention, ma non l’unico. Altre misurazioni, per quanto grossolane, dell’impatto dell’evento possono arrivare per esempio dalla stima degli ascolti televisivi.
Quest’anno, in media la DNC (che sta per Democratic National Convention) ha avuto più telespettatori della RNC – nei primi tre giorni dell’evento, 24,7 milioni contro 21,6 secondo Nielsen -. Ma il momento forse più atteso, il discorso del candidato alla presidenza, ha generato riscontri opposti: 30 milioni per Trump, 27,8 per Hillary.
D’altra parte, quello degli ascolti televisivi non è storicamente un indicatore affidabile: dal 1960 al 2012 il partito che ha avuto ascolti più alti per la sua convention ha vinto sette volte e ha perso altrettante.
E a fornire qualche altro elemento arrivano rilevazioni sull’efficacia dei discorsi dei candidati e sugli effetti globali delle Convention: stando a un instant poll condotto dalla CNN su un campione di persone che hanno visto gli acceptance speech dei candidati, il 71% ha reagito positivamente a quello della Clinton, il 57% ha reagito positivamente a quello di Trump.
Su un piano più generale, poi, un sondaggio Gallup ci dice che dopo la convention repubblicana il 51% degli elettori si è detto meno propenso a votare per Trump, e il 36% più propenso. D’altra parte, dopo la convention democratica il 45% si è dichiarato più propenso a votare per Hillary, e il 41% meno propenso.
Cosa resta dopo le Convention?
Le Convention aiutano a orientare e definire la campagna elettorale, e sono uno dei due pilastri della stagione post-primarie: l’altro sono i dibattiti presidenziali, previsti fra fine settembre e metà ottobre, di cui parleremo in un prossimo articolo.
I politologi Robert Erikson e Christopher Wlezien, autori del libro The 2012 Campaign and the Timeline of Presidential Elections, sostengono che, tuttavia, alla fine le Convention contano molto più dei dibattiti – e questa non è una buona notizia per Donald Trump, che essendo oggi circa 6 punti dietro a Hillary Clinton a livello nazionale deve sfruttare ogni possibile occasione per uscire dall’angolo –.
Ci sono, comunque, due effetti più di lungo periodo delle Convention, che quest’anno rischiano di essere determinanti.
Il primo è l’unità dei partiti intorno al candidato Presidente: mai come in questo 2016, con primarie combattutissime in entrambi i campi, recuperare il sostegno all’interno del proprio partito è la prima pietra su cui costruire il successo elettorale a novembre.
Una rilevazione ABC/Washington Post di inizio agosto ha registrato per Hillary un consenso pari al 92% fra gli elettori che si descrivono Democratici, e pari all’86% fra quei Democratici che alle primarie le avevano preferito Bernie Sanders. Secondo la stessa indagine, Trump non va oltre all’83% fra i Repubblicani ed è appoggiato solo dal 74% degli elettori repubblicani che alle primarie avevano votato per qualcun altro.
Non è una questione di poco conto, attenzione: soprattutto in un contesto con due candidati globalmente poco apprezzati è strategicamente essenziale consolidare la propria base di consenso, prima ancora che conquistare i presunti swing voters o gli indipendenti.
E poi, c’è la solita questione geografica: come abbiamo visto nelle scorse puntate, non tutti gli stati pesano allo stesso modo. Ci sono alcuni stati decisivi, in grado di consegnare i “grandi elettori” che fanno la differenza tra la vittoria e la sconfitta.
Le Convention portano infatti riflettori, visitatori e denaro agli stati in cui si tengono, e non è un caso che quest’anno i Repubblicani abbiano scelto di riunirsi in Ohio, a Cleveland, e i Democratici a Philadelphia, in Pennsylvania.
Due stati imprescindibili per Trump e Clinton (i Repubblicani non hanno mai vinto la presidenza senza vincere l’Ohio, e per i Democratici la strada per la Casa Bianca passa per la Pennsylvania dal 1960).
Lo stesso era accaduto nel 2012, con i Democratici in North Carolina e i Repubblicani in Florida, e nel 2008, con i Democratici a Denver, Colorado, e i Repubblicani in Minnesota (non proprio uno swing state, visto che vota per i Democratici dal 1976, ma un posto in cui il GOP sperava di avere qualche chance dopo il 2004, quando George W. Bush perse di appena 3 punti).
Come si vede da questa tabella, non sempre le Convention si sono svolte in stati contesi, ma dal 2008 in poi è sempre stato così:
Che ci sia poi un effetto positivo diretto sul risultato elettorale nello stato in cui si tiene la Convention è più difficile da dimostrare. Esiste tuttavia un lungo studio, pubblicato sul Journal of Politics, secondo il quale un certo impatto c’è, sulle contee immediatamente interessate dalle Convention: il problema è che le stesse Convention, se da una parte galvanizzano gli elettori del proprio partito, dall’altra possono anche produrre un certo effetto boomerang sui sostenitori del partito opposto.
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