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Le 7 regole per vincere un dibattito

Il momento tanto atteso è arrivato. Stanotte, Hillary Clinton e Donald Trump duelleranno per la prima volta in un confronto che si prospetta imperdibile. Nella mia esperienza lavorativa, pochi momenti mi hanno entusiasmato come le preparazioni dei dibattiti: nel 2012, allenando Pippo Civati al confronto tra i candidati alle primarie su Sky (dove fece una performance promossa a pieni voti da tutti i media); quest’anno, con Pierfrancesco Majorino in occasione delle primarie democratiche a Milano.

In tutte queste situazioni, la conoscenza dei format e dei dibattiti americani sono stati fondamentali. Su quanto sia atteso un dibattito, e questo in particolare, si sono dilungati in molti: anche noi di YouTrend ne abbiamo parlato, quattro anni fa. Ma questa volta, molte cose sono diverse.

HILLARY VS TRUMP

Non sappiamo cosa ci aspetta questa sera. Donald Trump non ha mai affrontato dibattiti faccia a faccia: i confronti a cui ha partecipato alle primarie avevano infatti format differente e tempi diversi. Per un candidato brillante e con una personalità forte come lui, emergere “tra tanti” è molto più semplice di emergere in una sfida uno contro uno.

Hillary, debater solida ed efficace, ha sicuramente una maggiore esperienza; ma anche lei non ha mai affrontato dibattiti “faccia a faccia” così importantiInoltre, Trump l’ha dimostrato più volte: sul palco è imprevedibile. Le sue battute fulminanti possono mettere l’avversario ko, ma possono anche ritorcersi contro.

La sua ironia pungente, il suo sarcasmo e la sua aggressività, durante i dibattiti per le primarie repubblicane, distrussero il più sobrio, moderato e noioso Jeb Bush (da Trump soprannominato “low energy Jeb“); ma il miliardario newyorchese non fu altrettanto bravo, in diverse occasioni, a contrastare gli attacchi di Rubio e Cruz.

Se attaccato su alcuni temi, infatti, le sue risposte non sono controllabili. Inoltre, la sua preparazione, rispetto a quella di Hillary Clinton, è sicuramente lacunosa. Ma, soprattutto, il tycoon ha un grande nemico: le sue gaffes.

Anche per questo, nessuno dei due sfidanti sta preparando i dibattiti in modo tradizionale. Solitamente, infatti, si ricorre a sessioni intense di mock debate, una sorta di simulazione di dibattito con un conduttore e uno sparring partner a imitare le posizioni e gli attacchi dell’avversario.

Hillary, che pure non ha trascurato le simulazioni, si è concentrata maggiormente in un lavoro di opposition research, con professionisti e avvocati al lavoro per ricostruire tutte le incoerenze di Donald Trump e indagare nelle sue attività, in modo tale da preparare attacchi frontali efficaci per questa notte.

L’aver divulgato questa notizia, d’altronde, rientra pienamente nella strategia di preparazione del dibattito: Trump va messo sotto pressione da subito, prima ancora dell’inizio del confronto.

Il candidato repubblicano, come sempre, ha lavorato a modo suo: la sua arma, che preoccupa molto la Clinton, sta nell’imprevedibilità e nella spontaneità. E non è finita: un’altra grande novità per le campagne elettorali USA è il clima di questi ultimi mesi. Mai negli ultimi decenni c’erano stati simili scambi di colpi bassi tra candidati. Per questo tutti i commentatori si chiedono: questa sera si manterranno condizioni di rispetto e cordialità o si proseguirà sullo scontro?

POCHE, SEMPLICI REGOLE.

  1. LE GAFFES NON SI PERDONANO

Tutti i dibattiti, presidenziali e non, degli ultimi decenni negli Stati Uniti ci hanno insegnato una cosa: non sempre una buona prestazione comporta una crescita nelle intenzioni di voto. Viceversa, una gaffe o un pessimo dibattito possono portare a un crollo verticale.

Nel 1976 Gerald Ford dichiarò candidamente che “non c’è nessun dominio comunista nell’Europa dell’Est”: non il massimo per il Presidente uscente degli Stati Uniti in piena Guerra Fredda. Rick Perry, nel 2012 candidato frontrunner alle Primarie Repubblicane, si dimenticò in diretta televisiva l’agenzia statale di cui stava per annunciare l’abolizione. In entrambi i casi, i risultati elettorali del candidato gaffeur furono deludenti.

  1. CONOSCI IL TUO AVVERSARIO

Gli avversari non solo vanno studiati. Vanno conosciuti nel dettaglio.

Bisogna raccogliere tutte le loro dichiarazioni su ogni tema, non solo per coglierne eventuali incoerenze da sottolineare in diretta, ma soprattutto per prevedere e capire in anticipo cosa diranno. Riuscire a prevedere le risposte avversarie (e le domande dei moderatori) è un passaggio fondamentale per dare risposte convincenti e sorprendenti. Ronald Reagan sapeva, nel 1984, che i suoi 73 anni sarebbero stati un argomento chiave per il più giovane candidato democratico Walter Mondale, che l’avrebbe accusato di essere troppo anziano per correre per la Presidenza. La sua risposta, preparata in anticipo, “Prometto che non utilizzerò l’inesperienza e la giovane età del mio avversario a fini elettorali”, resterà negli annali.

  1. ABBASSA LE ASPETTATIVE!

La prima regola di una strategia per un dibattito televisivo è “setting low expectations“: abbassa le aspettative sul tuo candidato, e al contempo alzale sul tuo avversario. Con aspettative basse, infatti, sarà più facile provocare “l’effetto sorpresa”; con aspettative troppo alte, invece, il rischio di deludere gli elettori tiepidi o indecisi aumenta notevolmente.

Così, prima dei dibattiti è frequente leggere dichiarazioni di elogio dell’avversario da parte dello staff di un candidato: nel 2004 le redazioni dei quotidiani si riempirono di memo strategici prodotti dai consulenti di Bush, dove venivano ricordati tutti i faccia a faccia vinti da John Kerry nella sua carriera. Riuscirono a scovare aneddoti risalenti addirittura al college, trovando dichiarazioni inedite del suo professore di debating dell’epoca, Rollin Osterweis, che lo definiva “il mio miglior studente, specializzato nell’affondo improvviso, per spiazzare l’avversario quando si sente alle corde”. Lo staff di Kerry replicò poco dopo, producendo un dossier che raccontava le grandi abilità dialettiche di Bush, capace di sorprendere quattro anni prima un talentuoso debater come Al Gore, ma anche di sconfiggere nel 1994 Ann Richards, Governatrice uscente del Texas.

Otto anni fa lo staff repubblicano, terrorizzato dall’inconsistenza della candidata alla Vicepresidenza Sarah Palin, sfruttò le sue gaffes nei giorni precedenti il dibattito con l’esperto Senatore Joe Biden per provare a riuscire nell’insperata operazione di “sopravvivere al dibattito senza fare danni”. Fu così che una performance modesta ma senza grossi errori venne raccontata ai media come un trionfo. Lo staff riuscì anche a rimediare al limite più grande della Palin, che incomprensibilmente non riusciva a pronunciare il cognome del Senatore Biden: nella stretta di mano iniziale, infatti, si può notare l’allora Governatrice dell’Alaska che, abbracciando il futuro Vicepresidente, gli chiede affettuosamente: “Posso chiamarti Joe, vero?”.

Anche Obama, debater capace, è molto più a suo agio nei lunghi discorsi nei quali può trasmettere tutte le sue emozioni che nelle risposte sintetiche e concise imposte dai format dei confronti. Il presidente uscente si ritrovò vittima delle troppe aspettative nel primo dibattito contro Romney: la sua serata negativa, abbinata a una buona prestazione di Romney, fu così inaspettata che i media parlarono di “prestazione catastrofica”, e i sondaggi lo videro crollare. Dovette dare il meglio di sé nei due dibattiti successivi per cancellare in parte l’effetto di quel confronto.

Gli analisti in questi giorni hanno sottolineato come questo aspetto favorisca Donald Trump: c’è una quota importante di elettori repubblicani scettici nei suoi confronti, saranno i più convincibili stanotte.

  1. SII SIMPATICO

Gli elettori non vogliono sopportare per quattro anni un Presidente scontroso e antipatico. Non è necessario votare un candidato esilarante, le battute memorabili piacciono più ai giornalisti che agli elettori (chiedete a un elettore indeciso delle campagne dell’Iowa cosa ne pensa della storica battuta di Lloyd Bentsen nel dibattito del 1988 contro Dan Quayle, “Senator, you’re not Jack Kennedy“: difficilmente se ne ricorderà), ma un candidato scorbutico e arrogante difficilmente troverà il sostegno degli americani.

Nel 2000, Al Gore si mostrò molto più preparato e pronto a governare rispetto a George W. Bush, ma il suo continuo sbuffare, il suo porsi in modo arrogante e poco rispettoso nei confronti dell’avversario lo fece crollare nei sondaggi. Si parla sempre dei presunti brogli in Florida quando ci si riferisce alle elezioni del 2000: la realtà è che senza le prestazioni disastrose nei faccia a faccia con Bush, Al Gore avrebbe vinto nettamente.

George W. dimostrò, così, di aver imparato la lezione che colpì suo padre: otto anni prima, infatti, durante un town hall meeting (un format di confronto particolare, generalmente utilizzato nel secondo dei tre dibattiti, dove i candidati si muovono in una arena rispondendo alle domande del pubblico) contro Bill Clinton, Bush padre fu inquadrato più volte mentre scrutava l’orologio, impaziente di finire di rispondere alle domande dei cittadini. Gli americani, molto semplicemente, non apprezzarono.

  1. NON AGGREDIRE

Attaccare il proprio avversario è lecito, a volte fondamentale; si dice che “Punch him in the mouth!” sia stato il consiglio principale dato a Obama da Karen Dunn, la sua consulente specializzata nella preparazione dei dibattiti, dopo la prima sconfitta con Mitt Romney. Ma la maleducazione e l’aggressività eccessiva raramente pagano.

Al Gore nel 2000 si avvicinò in modo aggressivo a George Bush durante un town hall meeting: Bush si interruppe, lo salutò con un sorriso, e si voltò nuovamente verso il pubblico. Riguardando quel dibattito, anche il più strenuo oppositore delle politiche neocon non può non provare un moto di simpatia nei suoi confronti.

Hillary Clinton ha già subito un trattamento simile: Donald Trump dovrà stare ben attento a non ripetere il comportamento di Rick Lazio, avversario di Hillary al Senato nel 2000 nel seggio di New York. L’allora deputato uscì dalla propria postazione per invitare la Clinton a firmare un documento. Lo stesso Lazio, che perse malamente, lo definì un errore grave. Venerdì è intervenuto sui media americani per invitare Trump a non ripetere l’errore e a non muoversi dalla sua postazione.

  1. NON PARLARE A TUTTI

I messaggi fanno la differenza. Un messaggio debole, una mancata risposta alla domanda “perché dovrei votare per te?” sono difficili da compensare. Non bisogna convincere tutti gli elettori: si vince col 51%. Per questo, conoscere e studiare a fondo l’elettorato diventa fondamentale per capire a chi rivolgersi: se dare priorità a un messaggio di mobilitazione dei propri elettori o se parlare soprattutto agli indecisi.

Nel 2012, il Vicepresidente Joe Biden, nel confronto con il suo omologo repubblicano Paul Ryan, sfoderò una performance aggressiva e un messaggio molto più liberal del suo solito. Non convinse gli indecisi, non gli interessava: il suo obiettivo era recuperare gli elettori democratici delusi dalla pessima prestazione di Obama nel dibattito contro Romney di pochi giorni prima. Ci riuscì.

  1. CHIUDI ALLA GRANDE

Il momento più ricordato di un dibattito è il closing statement, ovvero l’appello al voto finale. Il candidato, in quel momento, può parlare liberamente, senza argomenti da seguire o domande a cui rispondere, e può quindi rivolgersi direttamente agli elettori.

Le regole di un ottimo closing statement sono: parla in modo semplice, esprimi in maniera corretta il tuo messaggio, coinvolgi gli elettori, emozionali. Ronald Reagan, nel 1980, concluse il dibattito contro Jimmy Carter chiedendo agli americani: “State meglio di 4 anni fa? È più facile per voi fare la spesa di quanto lo fosse 4 anni fa? Se pensate di sì, il vostro voto è scontato, se non pensate che i prossimi 4 anni debbano seguire questo corso, invece, vi suggerisco una scelta alternativa”. Gioco, partita, incontro. Reagan passò in poche ore da uno svantaggio di 8 punti a un vantaggio di 3.
Non sono molti gli appelli al voto passati alla storia, ma non esiste arma più devastante in un dibattito elettorale.

Ma ora l’’attesa è finalmente terminata: stasera vedremo se prevarrà la solidità di Hillary o la battuta fulminante di Donald Trump.

Non dovremo attendere molto per scoprirlo: i risultati dei primi instant polls (sondaggi che vengono effettuati a pochi minuti dalla chiusura del dibattito) arriveranno dopo meno di un’ora.

Buon divertimento a tutti.

Giovanni Diamanti

Classe 1989, consulente e stratega politico. Co-fondatore e amministratore di Quorum, ha lavorato ad alcune tra le più importanti campagne italiane, tra cui quelle di Debora Serracchiani, Dario Nardella, Nicola Zingaretti, Vincenzo De Luca, Pierfrancesco Majorino, Beppe Sala. In realtà è un ragazzo timido che ama guardarsi la punta delle scarpe. Uomo dalla testa veloce, ha idee (confuse) in ordine sparso - così come i capelli.

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