Matteo Renzi ha perso la propria battaglia e a breve non sarà più il Presidente del Consiglio. La sua è una sconfitta pesante, dalle dimensioni non prevedibili e non previste. Non si può dire che non ce l’abbia messa tutta fino all’ultimo: decine di comizi, interventi e confronti televisivi costanti, senza nascondersi. Ci ha messo la faccia, e si è dimesso subito dopo il voto con una dignità che non può lasciare indifferenti. Quella di domenica è anzitutto la sconfitta sua e della strategia che ha portato avanti.
Analizzare gli errori più evidenti in una campagna elettorale a posteriori è facile. Noi abbiamo provato a farlo, in questo blog, anche qualche mese fa: ne parlavo proprio qui . Ma questo esito, dalle dimensioni non prevedibili, pone chi studia e lavora nel mondo della comunicazione politica di fronte alla necessità di capire e di spiegare certe dinamiche della costruzione del consenso.
Ieri, il mio socio e collega Lorenzo Pregliasco ha riassunto in nove efficaci pillole le lezioni di questa campagna elettorale; oggi io provo a proporre una riflessione più articolata su cosa sia andato storto in questa campagna elettorale per il fronte del Sì, con la consapevolezza che le mie sono solo ipotesi, e che nascono appunto da una analisi post-voto, e quindi dal vantaggio di possedere dati certi e verificati.
Anzitutto, la personalizzazione
La campagna elettorale è iniziata in primavera, e nelle rilevazioni demoscopiche (che stavolta si sono rivelate molto precise e affidabili, e che quindi ci aiutano a leggere questa campagna elettorale aggiungendo elementi oggettivi e credibili alle riflessioni) il vantaggio del Sì è apparso subito netto: nell’Atlante Politico di marzo di Demos & Pi, il 50% degli intervistati si dichiarava intenzionato a votare a favore della riforma, contro un 24% che si dichiarava contrario e un 26% di indecisi. Per molti, un dato scontato: è una riforma fatta per essere comunicata, come si fa a votare contro i tagli ai costi della politica, contro una maggiore efficienza delle istituzioni?
A maggio, poi, Matteo Renzi dichiara per la prima volta che il destino del proprio governo coincide con quello della riforma: è l’inizio di un crollo verticale nei sondaggi. Per un leader politico, una simile assunzione di responsabilità può apparire quasi banale. Non è invece banale né scontata la reiterazione di questo messaggio da parte di Renzi, che rafforza queste sue dichiarazioni senza curarsi del fatto che il suo indice di fiducia nei sondaggi si attesta tra il 30 e il 40%.
Solo a fine estate Renzi inizia a distaccarsi un po’ da questo messaggio, invitando gli avversari a parlare del merito della riforma, e annunciando una campagna sui contenuti per smascherare “le bufale” degli avversari. Nel mentre, però, i confronti televisivi con Zagrebelski, De Mita, D’Attorre, Meloni non facevano che rafforzare il frame del referendum sulla sua persona.
La mia collega Martina Carone a giugno mi disse che, secondo lei, il Presidente del Consiglio aveva solo un modo per uscire da questa iper-personalizzazione senza fare marce indietro che – a poco tempo dal voto – sarebbero risultate poco credibili e poco coerenti: annunciando le sue dimissioni anche in caso di vittoria del sì.
Proponendo uno scenario simile, avrebbe potuto così disarmare gli anti-renziani duri e puri, ottenendo anche l’effetto di spostare il dibattito dal destino di Matteo Renzi al destino del Paese. Uno scenario che avrebbe riportato il discorso nel merito della riforma. A dir la verità, nelle ultime settimane il Presidente del Consiglio ha più volte aperto a una soluzione simile, senza però mai convincere del tutto: non si cambia idea all’improvviso, alla fine della campagna elettorale. Si rischierebbe, così, di essere poco credibili, o di risultare disperati.
Le eventuali dimissioni in caso di vittoria del sì sono quindi rimaste tali: una buona idea, depotenziata però da un tempismo in questo caso discutibile.
Dal 5 comunque nuova stagione = dimissioni anche se vince il sì.
Una mossa strategicamente sensata in zona Cesarini (tardi?) #telavevodetto— Martina Carone (@Martina_Carone) 30 novembre 2016
Vuoi fare il populista? Devi essere credibile
“Cara Italia, vuoi diminuire il numero dei politici? Basta un Sì”. Sui 6×3, sugli autobus, sulle plance per le affissioni, sui social: abbiamo trovato questo manifesto dappertutto. La strategia era chiara: visti i tagli ai costi e agli incarichi previsti nella nuova costituzione, il fronte del Sì ha scelto toni forti e populistici per persuadere l’elettorato antipolitico vicino al Movimento 5 Stelle. Ecco, secondo il sondaggio di Quorum per Sky Tg 24, a cui hanno lavorato per tutta l’election night Davide Policastro e Matteo Cavallaro, il 94% degli elettori del Movimento 5 Stelle ha votato No alla riforma costituzionale. Come è evidente, il messaggio non è passato.
Si dice da sempre che inseguire gli avversari sul loro terreno sia un errore perché gli elettori, alla copia, preferiscono l’originale. Qui si aggiunge un problema di credibilità del messaggio: è difficile, per chi viene considerato “establishment”, porsi come paladino “anticasta” in modo credibile. E rischia di allontanare alcuni elettori precedentemente fidelizzati.
Anche qui, parlare a posteriori è facile, ma i dati del sondaggio di Quorum non lasciano spazio a diverse interpretazioni, come ha sottolineato tra gli altri Lorenzo Ravazzini.
Il Pd non basta
L’affluenza, infine, rappresenta l’elemento centrale della analisi post-voto, ed è stata uno scoglio insormontabile per Matteo Renzi. Nessuno aveva previsto un’affluenza così alta. Domenica 4 dicembre ha votato un corpo elettorale ben diverso da quello che ci si attendeva, e molto simile per dimensioni a quello delle elezioni politiche. Osservando i dati delle Politiche 2013 risulta evidente come, anche sommando ai voti del Partito Democratico quelli del centro montiano come se si trattasse di un unico, monolitico blocco, l’obiettivo del 51% rimanesse molto, molto lontano. Serviva uno sfondamento importante nell’elettorato di centrodestra, serviva una maggiore coesione interna al Pd, servivano i voti della sinistra. Serviva, in pratica, un rimescolamento totale dello scenario politico.
Per mesi tutti gli analisti (tra cui il sottoscritto) hanno evidenziato che la presenza di un comitato unico del fronte del Sì, in contrapposizione ai molteplici comitati per il No, portasse un messaggio più forte, più coerente, omogeneo, disciplinato, e desse quindi alla coalizione governativa un vantaggio importante in termini comunicativi. A posteriori, queste riflessioni si sono rivelate errate.
Il comitato “Basta un Sì”, fortemente identificato con il Partito Democratico, ha sicuramente agevolato la divulgazione di un messaggio coerente, forte e omogeneo, ma ha al contempo chiuso la campagna del Sì nel recinto degli elettori democratici. Con una simile affluenza, la partita non si giocava più sulla mobilitazione (sulla quale tanto ha investito il premier negli ultimi mesi): diventava decisivo lo spostamento di intere fasce dell’elettorato da uno schieramento all’altro. Forse, in questo contesto, la presenza di diversi comitati con un peso comunicativo rilevante avrebbe permesso una maggiore differenziazione dei messaggi, per parlare in modo credibile e diretto ai target individuati come “maggiormente persuadibili”. Servivano, evidentemente, più Flavio Tosi e meno Maria Elena Boschi.
La campagna elettorale vera, quella per le elezioni politiche, prosegue, e anzi probabilmente entrerà nel vivo in poche settimane. Matteo Renzi ha tutto il tempo per ribaltare questo esito e vincere le elezioni. Certo, dovrà dimostrare ancora una volta di saper imparare dagli errori: in questi mesi, ne ha commessi troppi.
Sono state effettuate analisi sull’efficacia di un eventuale spacchettamento in più quesiti?
Qui ci sono i risultati del sondaggio condotto da Quorum per SkyTg24 che possono rispondere (almeno in parte) alla tua domanda:
https://www.facebook.com/youtrend/photos/pb.246504245396625.-2207520000.1481042040./1218930084820698/?type=3&theater
Sempre bravissimo. Ora Renzi deve lavorare per non sembrare finto e rinunciare ai giochi di parole. Il suo problema è la statura umana.
Scusi Diamanti, ma quale coerenza ci poteva essere nel proporre una eventuale dimissione anche in caso di vittoria del SI? E’come se lui non si fosse intestato questa riforma! Il che, ovviamente, non è vero. E se Lei pensa che il nostro avesse solo anche potuto pensare un’ipotesi di dimissioni, seppure in tempi non sospetti, anche con la vittoria del SI, beh allora Lei proprio non conosce l’uomo Renzi.
Una riflessione se si fosse sovrastimato a marzo? Vedi anche le “sorprese” Raggi e Appendino?
Il problema maggiore di Renzi, referendum a parte, è la poca credibilità del personaggio. L’idea che molti italiani si sono fatti, ed a ragione, è che Renzi non sia sincero. Pertanto qualunque cosa avesse detto, qualunque promessa avesse fatto, sarebbe stata vana. Anzi, più grossa la spara (addirittura dimissioni anche in caso di vittoria del SI, assolutamente improbabile) meno credibile è.