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Perché la vittoria di Trump non era imprevedibile

Donald J. Trump è il 45esimo presidente degli Stati Uniti. Il neo-eletto è, senza dubbio, una delle figure più controverse della politica moderna, tanto che il suo nome è stato tra le 10 parole più ricercate sui motori di ricerca online nel 2016, come riportato dal Time. A pochi giorni dal suo insediamento alla Casa Bianca, ancora molti sono coloro che amano discutere e domandarsi come ciò sia avvenuto, considerando che la maggior parte tra giornalisti, esperti e sondaggisti non si aspettava un risultato del genere.

 

Sebbene quasi nessun istituto demoscopico avesse previsto la straordinaria vittoria di The Donald, ad oggi fioccano le analisi ma ben pochi sono i ‘mea culpa’ da parte di coloro che più hanno sbagliato negli ultimi due anni. Certamente diversi errori sistematici hanno reso la candidatura di Trump difficile da analizzare. Un esempio di questi errori

è la complessità nell’analizzare sondaggi di formazione diversa come Web Polling e Personal Polling. In questo caso, la presenza di un operatore che conduce il sondaggio (sia esso telefonico o vis-à-vis) introduce un elemento personale, rendendo più complicato per il rispondente dare informazioni personali e ritenute sensibili rispetto ad un sistema di sondaggio online, che rispetta molto di più la privacy della persona. In aggiunta, una narrazione data dal concerto dei media, USA ed internazionale, non ha contribuito ad una comprensione veritiera del fenomeno, specialmente durante tutto il percorso delle primarie. Diversi spunti interessanti emergono dalle analisi fatte da Nate Silver, fondatore del FiveThirtyEight, e diverse testate internazionali, come il Telegraph. Abbiamo deciso di analizzarli e discuterli.

Il primo mito da sfatare riguarda il presunto fallimento su tutta la linea di sondaggi e sondaggisti, derivato dalla vittoria di Trump. Poco dopo l’esito elettorale, una tra le più frequenti ‘headlines’ riportava quanto le analisi demoscopiche fossero assolutamente fuorvianti rispetto alla realtà (azzardando un parallelo Brexit/elezioni americane/elezioni nazionali).

Ad onore del vero, i rilevamenti di livello nazionale riguardanti le percentuali del voto popolare  per i singoli candidati si sono discostati di ben poco (più o meno un 2%) rispetto alla realtà dei risultati elettorali. Questo è facilmente verificabile confrontando i dati dei giorni precedenti al voto e i dati reali ottenuti dai diversi candidati (come si vede in questo grafico) . Certo, diverse previsioni (soprattutto negli ‘swing states’) hanno preso dei grossi granchi, ma a livello generale non si può dire che il sistema demoscopico statunitense abbia fallito nella stima dei voti presi dai due maggiori candidati.

 

La domanda è: ma allora, perché non ci avete preso?

La risposta è necessariamente contingente al sistema elettorale tipico degli Stati Uniti, dove non sempre c’è una corrispondenza tra maggioranza di voti ottenuti e guida del paese. Hillary Clinton, infatti, si unisce ad altri tre candidati che nella storia degli Stati Uniti hanno vinto il voto popolare, ma perso la Casa Bianca: Al Gore (2000), Grover Cleveland (1888) e Samuel Tilden (1876). Tutto ciò è dovuto al sistema del cosiddetto ‘Electoral College’, che vede ripartire i voti dei grandi elettore in un sistema maggioritario basato sugli stati. Ipoteticamente, un candidato potrebbe ottenere tutti i voti degli stati considerati minori e avere così complessivamente la maggioranza assoluta dei voti, e ancora potrebbero mancargli i delegati necessari per raggiungere il numero magico di 270 grandi elettori, condizione necessaria per l’elezione.

Dove sta l’errore?

Calato nel reale, un sondaggio è l’insieme di preferenze dei singoli rispondenti, condizionato da diversi fattori (età/livello di istruzione/area geografica di provenienza) etc. Un problema da molti ritenuto insormontabile è la tendenza a considerare sondaggi basati su campioni nazionali (su tutta l’area degli gli Stati Uniti) come sondaggi attendibili dal punto di vista degli ‘electoral colleges’. Qui sta l’inghippo: essendo i grandi elettori conteggiati su base statale, il dato di preferenza dovrebbe essere basato su campioni statali, e non un agglomerato di preferenze derivanti da stati diversi.

In conclusione, nonostante la media dei sondaggi nazionali per il voto popolare fosse pienamente entro il margine di errore, i più grandi istituti demoscopici hanno fallito nel vedere i movimenti dei particolari stati che hanno convertito i voti popolari (in numero minore) di Trump nei voti elettorali che gli hanno consegnato la vittoria.

Il problema non sta nei dati, quindi. Questo dovrebbe essere il mantra che tutti, dai giornalisti più esperti ai lettori che per la prima volta si avvicinano alla statistica, dovremmo capire. I dati non mentono. Possono essere raccolti bene o male. Possono essere analizzati, bene o male. E questo è il secondo punto che ci preme indagare: troppo spesso si è fatta ricadere la colpa sul sondaggio in sé, piuttosto che su una errata interpretazione dello stesso. Nonostante anche il sito 538.com assegnasse alla Clinton una probabilità di vittoria del 70% contro il 30% di Trump nella settimana precedente le elezioni, diversi altri studi demoscopici presentavano la vicenda come una barzelletta, con Clinton vincente a in 99 casi su 100. Tutto ciò basando le previsioni sugli stessi dati. Questo per affermare nuovamente che il modello di analisi è fondamento dell’outcome’ atteso, e che i dati in sé non sono necessariamente né buoni né cattivi: sono, semplicemente, dati.

Il fatto che Clinton fosse data con certezza per vincente, però, non è attribuibile soltanto ai risultati dei sondaggi. La concausa principale è probabilmente una narrazione da parte dei cosiddetti ‘mainstream media’ che era apertamente schierata da tempo verso un unico candidato. Questo ha contribuito (probabilmente) a sottostimare il peso elettorale di episodi come la lettera del direttore FBI, presentata una decina di giorni prima del voto (e riguardante lo scandalo e-mail della Clinton), o la possibile scarsa volontà da parte degli afroamericani di recarsi a votare. Tutto ciò, unito alla capacità di Trump di giocarsela bene nei collegi elettorali, ha portato a una situazione che a quasi 3 mesi dalle elezioni risulta avere ancora qualcosa di straordinario. Il peso di questa fallace narrazione giornalistica è difficile da misurare, ma un lampante esempio è presentato nella tabella sottostante, pubblicata su 538.com. Questa mostra come la posizione di giornali ritenuti mainstream sia cambiata radicalmente tra pre e post elezione, e rende nota una superficialità che ha seri effetti sulla fruizione delle informazioni da parte dei cittadini. Senza considerare che diversi stati (poi persi dalla candidata democratica) erano dati dai media come ‘solid blue’, ovvero certamente pro-Clinton.

Cosa è successo quindi?

Qui alcuni spunti di analisi, per comprendere meglio queste elezioni sensazionali.

Primo: Trump non era poi così improbabile.

La vittoria di Hillary Clinton non era così scontata. I democratici tentavano di insediarsi alla guida del paese per il terzo mandato consecutivo alla Casa Bianca. L’ultimo partito ad assicurarsi i tre mandati di fila fu il partito repubblicano (1982-1990) più di 25 anni prima. In aggiunta, la candidata democratica aveva il difficile compito di rimpiazzare un presidente decisamente amato dal popolo (Obama), che era difficile da eguagliare, soprattutto da una candidata percepita ‘oscura’ da molti.

Secondo:  Gli indecisi (molti) sono andati ai repubblicani.

 

Clinton e Trump sono stati i candidati meno amati della politica moderna. Moltissimi sondaggi lungo tutto l’arco delle elezioni (sia primarie che generali) hanno mostrato come l’apprezzamento per i due candidati fosse ai minimi storici. Questo fatto ha contribuito ad un numero maggiore di indecisi dell’ultimo momento rispetto al solito. A differenza degli elettori politicizzati (che votano il partito, più che il candidato), gli indecisi sono generalmente condizionati dalle news, da ciò che appare sui media. In questo frangente, se è vero che la Clinton era data di livello come vincente nei vari dibattiti apparsi sulle TV nazionali, è vero anche che lo scandalo wikileaks deve averla molto danneggiata, inducendo molti indecisi a votare ‘il meno peggio’.

Terzo: Le classi demografiche hanno di avantaggiato Trump.

Specialmente nei collegi elettorali. Elettori bianchi mediamente istruiti (senza titolo universitario), che sono stati lo zoccolo duro della vittoria di Trump, erano molto numerosi nei cosidetti ‘swing states’ ed hanno contribuito alla loro conquista. D’altro canto, gli elettori storici dei democratici (minoranze etniche e bianchi di alta educazione) hanno contribuito a raggiungere alti numeri di votanti in stati come la California, che erano già annoverata tra gli stati ‘blue’, e quindi non hanno aggiunto alcun grande elettore alla conta finale.

Quarto: Hillary Clinton bocciata in geografia.

La candidata democratica ha pagato (più dei suoi predecessori) un trend storico che riguarda l’area del voto. Negli ultimi anni si è consolidato il fenomeno generale che vede i democratici superare la controparte nelle zone più urbanizzate, mentre i repubblicani sfondare nelle aree rurali del paese. L’elezione del 2016 non si è discostata di molto: la Clinton stravince nelle cosiddette ‘Mega City‘ (città con più di 5 milioni di abitanti), staccando di qualche punto percentuale persino l’Obama del 2008. D’altro canto, il vero punto dolente, che ha pesato molto a favore di Trump, sono le città rurali e i piccoli centri cittadini.

L’ex segretario di stato, pur surclassando tutti i predecessori nelle megalopoli, ha collezionato tra le ultime due fasce geografiche la peggiore performance dalla fine degli anni ’80. A paragone, l’allora candidato democratico Dukakis si accaparrò un buon 10% in più nel settore rispetto alla Clinton. Ben pochi, tra commentatori ed esperti, avevano previsto questo possibile scenario, che ha, di fatto, contribuito pesantemente alla disfatta della Clinton.

Quest’analisi, che dipinge il metodo giornalistico come una delle cause della ‘non-previsione’ di Trump, rimette tutto in prospettiva. Se, sino ad oggi, i sondaggi erano al centro della diatriba, con quest’altra lettura ciò che viene discusso è il tipo di interpretazione che è stata data della corsa elettorale. La conseguente narrazione (che ha previsto poco, in fin dei conti) ne è stata la naturale conseguenza. È senza dubbio difficile ricondurre la vittoria di Trump esclusivamente a un singolo fattore, sono molte le concause che hanno contribuito alla vittoria del candidato meno “probabile”: ma questo potrebbe essere un buon punto di partenza per capire come è stato possibile l’impossibile.

 

Alessandro Da Rold

Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche, studia Diplomazia ed Affari Esteri all'Università Economica di Praga con specializzazione negli Stati Uniti. Nonostante la passione per la politica ed i sondaggi, il primo amore rimane la birra (rigorosamente ceca).

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