Il tema delle disuguaglianze sociali è tornato di attualità. La crisi economica che si protrae dal 2008 ha accentuato gli squilibri tra i poveri e i ricchi del pianeta, e in molti paesi occidentali si sono formati movimenti di cittadini – tra i più noti gli indignados in Spagna e Occupy Wall Street negli Stati Uniti – che hanno rivolto l’attenzione al divario tra i redditi dell’1% di facoltosi e del restante 99% della popolazione mondiale.
Il sito Vox.com ha pubblicato un articolo che sintetizza alcuni punti salienti di un lavoro più ampio. Questa ricerca si focalizza sia sulla distribuzione del reddito disponibile delle famiglie all’interno di ogni paese, sia sulla crescita dei redditi stessi nel corso del tempo, per appurare se e quanto siano cresciute le disuguaglianze.
L’indice di disuguaglianza impiegato dagli autori è nient’altro che il rapporto tra un livello di reddito molto alto (inferiore soltanto al reddito del 10% più ricco) e uno di livello molto basso (superiore soltanto al reddito del 10% dei più poveri), in ciascun paese. Tecnicamente, è il rapporto tra i redditi delle famiglie che si trovano al nono e al primo decile della popolazione (il cosiddetto rapporto P90/P10).
Questa scelta metodologica, molto comune in ambito scientifico, esclude le fasce estreme di ricchezza e di povertà presenti nella società. Proprio per questa ragione è stata criticata dall’economista Thomas Piketty nel suo noto libro, in quanto ignora la quantità di ricchezza posseduta dal 10% più ricco della popolazione (che negli Stati Uniti è all’incirca uguale alla ricchezza detenuta dal rimanente 90%).
Il grafico che segue mostra, per la Francia e per la Norvegia, l’evoluzione nel tempo del rapporto tra i redditi di coloro che gli autori definiscono, con una forzatura, i “ricchi” e i “poveri” dei due paesi.
Tra il 1978 e il 1984, a causa di una recessione, in Francia si registra un calo dei redditi della fascia più ricca e ancor più di quella più povera, pertanto la disuguaglianza cresce fino a un rapporto di 4,19 (ovvero i ricchi detengono più di quattro volte il reddito dei poveri), per poi tornare a ridursi fino al 1989 e rimanere sostanzialmente stabile fino al 2010 (rapporto di 3,57). In Norvegia, dalla fine degli anni ’70 in poi, sia i ricchi che i poveri hanno raddoppiato i loro redditi. L’indice di disuguaglianza si è sempre mantenuto basso, con un rapporto di poco inferiore a 3.
Molto diversa la situazione nel Regno Unito e negli Stati Uniti in termini di crescita dei redditi e della disuguaglianza, come si evince dal grafico che segue.
Durante le lunghe esperienze di governo di Margaret Thatcher e Ronald Reagan si verifica un sensibile aumento delle disuguaglianze in entrambi i paesi. L’indice di disuguaglianza nel Regno Unito (che registra i più bassi redditi dei poveri rispetto agli altri tre paesi), tra il 1979 e il 1991, schizza da 3,48 a 4,67 e negli Stati Uniti sale da 4,58 a 5,52. In seguito, nel paese britannico la disuguaglianza si riduce leggermente per oltre un decennio restando comunque su livelli più elevati rispetto alla Francia, mentre negli States cala di poco nell’era Clinton per poi tornare a crescere dall’inizio del nuovo secolo fino al 2013.
Qual è la situazione dell’Italia? Sul sito Our World in Data è possibile cimentarsi con dei grafici interattivi per osservare i dati relativi a tutti i 27 paesi che sono oggetto della ricerca. Il rapporto tra i redditi degli italiani più benestanti e di quelli dei connazionali meno abbienti è molto variabile nel corso del tempo, come si evince dal grafico seguente che descrive le variazioni dei redditi e non il loro livello (la linea blu è il primo decile, ovvero i più poveri, quella gialla è il nono decile, cioè i più abbienti).
Tra il 1991 e il 1993 (l’area evidenziata in rosso) i redditi dei ricchi aumentano di poco a fronte di un crollo dei redditi dei poveri di circa il 18%, con l’indice di disuguaglianza che schizza da 3,78 a 4,70. Si tratta del periodo in cui il governo Amato attua la prima grande manovra di austerità della storia repubblicana: tagli alla spesa e aumento delle tasse per ridurre il deficit pubblico e abolizione della scala mobile per colpire l’inflazione. Le scelte di politica economica compiute per rientrare nei parametri di Maastricht hanno gravato sulle fasce sociali più deboli.
Quali conclusioni si possono trarre da questo lungo viaggio nelle disuguaglianze dei redditi? Gli autori ritengono scorretto imputare alla globalizzazione e ai cambiamenti tecnologici tutte le colpe della crescita delle disuguaglianze, dal momento che tale aumento è molto più marcato in alcuni paesi rispetto ad altri. Le politiche economiche nazionali costituirebbero dunque un fattore determinante nel governare la distribuzione della ricchezza tra i diversi ceti sociali, anche in un mondo globalizzato. Questa considerazione appare in larga parte condivisibile, sebbene non si possa ignorare l’evidenza che il Regno Unito e gli Stati Uniti siano paesi più esposti alla globalizzazione rispetto ad altri, per via della loro centralità economica e, soprattutto, finanziaria.
Ma i dati suggeriscono anche altre considerazioni. In primo luogo, anche nei paesi con i più bassi indici di disuguaglianza (quelli scandinavi e alcuni paesi dell’Europa dell’est) non si registrano sostanziali diminuzioni del divario tra ricchi e poveri nel corso degli anni. In secondo luogo, è vero che durante i governi della destra liberista la forbice sociale si è allargata, ma è ancor più significativo il fatto che le esperienze della “Terza Via” (Blair in UK e Clinton negli USA, ma anche altri governi di centro-sinistra in Europa) non sono riuscite a ridurre la disuguaglianza, se non in modo marginale. Anzi, in alcuni casi, come in Spagna tra il 1990 e il 1995, il divario nei redditi è notevolmente cresciuto durante governi a guida socialista.
grazie.