È in atto un colpo di stato digitale? È quanto si chiede il quotidiano britannico The Guardian in un recente articolo, riferendosi alle nuove tendenze legate allo sviluppo digitale e alle conseguenze per la democrazia. Quali sono i rischi e le potenzialità dei big data e della tecnologia blockchain?
La data science (“scienza dei dati”) e i big data hanno assunto un ruolo sempre più centrale all’interno della società. Essi permettono infatti di estrarre in maniera automatica dati e informazioni sul comportamento degli utenti in rete al fine di elaborare tendenze e modelli predittivi. Con un chiaro rischio per la privacy.
Le cronache mostrano esempi e tendenze preoccupanti: Brexit prima, e le elezioni americane poi, hanno mostrato come le società d’analisi (come ad esempio Cambridge Analytica, che abbiamo incontrato a Londra con i ragazzi del team vincitore di ED16) possano ricoprire un ruolo assolutamente centrale nell’influenzare le scelte degli elettori, determinando, almeno in parte, l’esito delle consultazioni. La possibilità di captare informazioni sensibili sulla popolazione in rete è totale. Ma le potenzialità dei big data, applicate alla politica, non si limitano alle competizioni elettorali. In Cina, per esempio, si sta sviluppando un sistema che mira al controllo totale della popolazione: un sistema di sorveglianza che può essere definito di “credito sociale“, basato sull’analisi dei big data, che permetterà al governo di assegnare una sorta di punteggio del cittadino sulla base del comportamento e dell’adesione ai dettami del regime. Questo numero potrà determinare se, e in che misura, il cittadino avrà diritto a un prestito, a quale tipo di lavoro potrà ambire o ancora, determinare il rilascio di un visto o di un passaporto.
Ma la tecnologia non è necessariamente un elemento da demonizzare. Come tutti gli strumenti essa non è negativa di per sé. Piuttosto può essere negativo, quando non disastroso, l’uso che se ne fa. E se da un lato certi fenomeni hanno mostrato tendenze per certi versi apocalittiche, dall’altro, sono innegabili le potenzialità insite in questi strumenti. Tuttavia, affinché vengano sfruttate vi è la necessità assoluta di alcuni accorgimenti.
In primo luogo governi e istituzioni dovrebbero dotarsi di anticorpi: strumenti e strategie che mettano freno alle influenze che i grandi capitali finanziari e le lobby riescono ad esercitare, in maniera non propriamente democratica. L’utilizzo dei big data potrebbe essere regolato adeguatamente, limitandone i campi di applicazione e imponendo criteri di trasparenza e pubblicità. In un quadro legislativo più chiaro e che abbia come fine ultimo il pubblico interesse, la data science potrebbe diventare una risorsa per i governi. Essi infatti possono essere efficaci strumenti di conoscenza, comprensione e interpretazione della realtà, degli umori e delle tendenze della popolazione, offrendo così elementi importanti nell’adozione politiche consapevoli e condivise. Non a casa i big data, insieme alla tecnologia blockchain, sono considerati dal World Economic Forum tra le innovazioni che stanno cambiando il mondo.
Il sistema blockchain si basa su un protocollo informatico a eToro peer to peer, in grado di garantire la sicurezza delle transazioni tra utenti, sia che esse riguardino denaro, dati o informazioni, senza la mediazione di terze parti. Un chiaro vantaggio: si pensi ai movimenti finanziari e al ruolo intermediario delle banche. Questo tipo di soluzione, già adoperata con successo per la valuta elettronica Bitcoin, può essere estesa ad altri ambiti (per esempio gli atti notarili) e, con le dovute precauzioni, potrebbe avere una ricaduta diretta anche sulla democrazia. Intere pratiche potrebbero essere snellite con chiari benefici per la burocrazia e per le casse degli stati. Inoltre, garantendo sicurezza e trasparenza, potrebbe essere alla base di programmi di partecipazione dal basso e democrazia diretta, magari partendo dalle questioni meno tecniche o da quelle legate al territorio e alle esigenze di chi li vive. Con un certo grado di tutele, insomma, nelle democrazie questa tecnologia può essere adoperata per potenziare la democraticità dei processi decisionali.
C’è però da fare un’ultima considerazione, di carattere strutturale e sociale. Una svolta tecnologica è possibile solo in presenza di una società fortemente “digitalizzata”, che abbia competenze ed eque possibilità d’accesso. E questo dipende anche dalle scelte e dalle politiche dei governi. In Italia, secondo i dati Istat relativi al 2016, si è connesso alla rete il 67,4% delle famiglie. Più in generale, nella popolazione da sei anni in su, il 36% non usa internet. In uno scenario simile il rischio sarebbe quello di vedere sovradimensionate le istanze di alcuni gruppi più “tecnologici”, a scapito di altri che utilizzano di meno internet e suoi strumenti.
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