Lo Stato non c’è ancora, ma le tradizioni sì: basta sostituire l’Europarlamento al Congresso americano e Jean Claude Juncker a Donald Trump e il gioco è fatto. Lo “Stato dell’Unione”, la storica rassegna annuale americana ha, dal 2010, il suo omologo europeo che si svolge ogni settembre a Strasburgo (quest’anno il 13 settembre).
“L’Unione ha dimostrato di saper portare a casa risultati, ma ora deve diventare più forte e più efficiente.” Questo, in estrema sintesi, il messaggio lanciato da Juncker nel suo intervento d’apertura. Proviamo ad approfondire queste due affermazioni rispondendo a queste domande. Primo: a metà del suo mandato, che risultati ha ottenuto la Commissione rispetto al suo programma iniziale? Secondo: quali sono le auspicate, e fattibili, riforme istituzionali per rendere l’Unione più forte ed efficiente?
Lo stato a metà mandato
Come ogni governo che si rispetti, nel luglio del 2014 la Commissione Europea ha ottenuto la “fiducia” del Parlamento Europeo sulla base di un programma politico composto da 10 priorità per il quinquennio 2014-2019. Ciascuna di esse si sviluppa in un flusso di centinaia di progetti d’iniziativa legislativa. A due anni e mezzo dall’investitura, il Servizio Ricerca del Parlamento (EPRS) ne ha analizzato lo stato di avanzamento.
I risultati dell’analisi sembrano dar ragione a Juncker: l’Unione fa le cose. Globalmente, la Commissione ha presentato, in media, 8 iniziative legislative su 10 annunciate. Di queste, 2 su 5 hanno raggiunto la fase finale e sono entrate in vigore. Più nel dettaglio, su 388 provvedimenti attesi, i Commissari ne ha inviati 314 ai due legislatori (l’Europarlamento e il Consiglio) per la discussione e l’approvazione. 133 sono già stati adottati e 17 sono in dirittura d’arrivo. 53 sono le leggi in fase di stallo (di cui ben 25 relative all’accordo commerciale con gli USA) e solo 15 quelle ritirate (soprattutto in materia di tassazione e politica migratoria).
La mole di provvedimenti presentati e gli esiti sono piuttosto eterogenei a seconda della priorità. La numero 4 (mercato interno) è la più consistente con 110 iniziative presentate, mentre la numero 2 (mercato unico digitale), e la numero 6 sono quelle in stato più avanzato (circa il 50% della legislazione attesa e già stata adottata). Arranca invece la priorità 1 (occupazione, crescita e investimenti) in cui solo 5 iniziative – su 29 attese – hanno raggiunto la fase finale. Per il quadro completo, è possibile consultare il treno legislativo, servizio interattivo dell’Europarlamento.
Tempi e modalità d’approvazione sono ragionevoli: circa 3 proposte su 4 vengono adottate in prima lettura con un tempo medio di 16 mesi (per un’analisi più approfondita e per un confronto con le procedure nazionali, leggete qui).
Che stato dobbiamo aspettarci?
A livello di politiche, Juncker ha citato cinque punti focali per i prossimi anni. Uno, rinforzare il programma commerciale. Dopo il CETA, la Commissione ha già trovato un accordo politico col Giappone, poi si dirigerà in Australia passando per il Messico. Due, innovazione dell’industria europea. Tre, lotta al cambiamento climatico, leggasi regole più stringenti per le emissioni dei mezzi di trasporto. Quattro, rilancio dell’agenda digitale, soprattutto in materia di cybersecurity: qui la spinta arriva dall’Estonia, attuale Presidente del Consiglio dell’UE. Infine, il quinto e politicamente più spinoso punto, la politica migratoria.
Ma il vero scontro politico si gioca su un altro piano: “i cambiamenti istituzionali, se ci saranno, dovranno portare più efficienza e rapidità”. La saggia prudenza di Juncker lo dimostra. Ma di cosa stiamo parlando?
Le proposte in campo portano tutte ad una maggiore centralizzazione o “europanizzazione”: unire la Presidenza della Commissione e la Presidenza del Consiglio Europeo in una sola carica, integrare il Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM) nel diritto dell’Unione, creare liste transnazionali per le elezioni del Parlamento europeo, istituire un Ministro delle Finanze europeo che ricopra sia la Presidenza dell’Eurogruppo che la carica di Commissario agli affari economici, e infine, scongiurare un’Europa a più velocità.
Tra il dire e il fare, però, ci sono di mezzo gli stati membri. La reazione di alcuni di essi, i nordici e i conservatori soprattutto, è stata fredda. Quando Francia e Germania parlano all’unisono, non c’è opposizione che tenga. Ma non sembra essere questo il caso. Come mostra la tabella di politico.eu sulle riforme dell’Eurozona, la Merkel si opporrà sia a un’eventuale mutualizzazione del debito (i cosiddetti eurobond) che a una seria unione fiscale, nonostante i propositi di Macron in questo senso.
Cambiamento o no, le istituzioni necessitano di qualcuno che le guidi. E qui, si gioca l’altra partita. Il posto di Presidente dell’Eurogruppo (l’insieme dei ministri delle finanze dei 19 paesi che adottano l’Euro) diventerà vacante il prossimo dicembre, quando Jeroen Dijsselbloem arriverà a scadenza di mandato. Il Ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire sembra pronto a subentrare. Affinché ciò avvenga, Macron dovrà strappare un accordo con il tedesco Schäuble. Per un eventuale Ministro delle Finanze europeo, invece, l’attuale Commissario agli affari economici Pierre Moscovici presenta la sua candidatura.
Un primo indizio per conoscere il futuro lo avremo il 15 ottobre, con le elezioni regionali in Bassa Sassonia. Prima di sbilanciarsi in Europa, la Merkel (ormai quasi certa della vittoria alle elezioni politiche di domenica prossima) probabilmente vorrà concentrarsi sulla politica interna per strappare il Land all’SPD di Schulz, un terreno difficile per la CDU. Essere più forte in casa per essere più autorevole in Europa: se questa è la strategia, non fa una piega.
L’Unione è viva e si muove, ma dove va?
Torniamo alla domanda iniziale. In che stato è l’Unione? La sensazione è che si trovi in uno stato di transizione perenne dove ogni passetto in avanti sembra essere scaturito più da una volontà di non star fermi, di dire “eccoci, siamo vivi”, piuttosto che frutto di una strategia. “Il vento è tornato nelle vele europee”, dice Juncker. Nell’umore dei leader europei, sembra trattarsi invece di una bonaccia.
Alla luce dei fatti, buona parte dell’agenda europea è dettata da situazioni di emergenza. In queste situazioni il macchinoso apparato burocratico della Commissione, rappresentante istituzionali dell’interesse generale europeo, lascia il posto all’iniziativa (o non iniziativa) dei principali leader nazionali. Gli anni di crisi economica ne sono un esempio: il Fiscal Compact e il Meccanismo Europeo di Stabilità sono stati concepiti e realizzati al di fuori del metodo comunitario.
Rivedere l’assetto istituzionale potrà sveltire il processo decisionale dell’Unione, ma non stabilirà chi ha il potere di decidere. Un checks and balances portato all’estremo: ad ognuno un pezzetto, purché nessuno prevalga. Non c’è strategia senza leadership e quest’ultima è ancora in cerca di autore.
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