Youtrend

Come sfruttare al meglio una legge elettorale (e vivere felici)

Ci possono essere i collegi uninominali o i premi di maggioranza. Quale che sia il sistema elettorale, però, il protagonista unico della scena politica italiana dall’inizio della Seconda repubblica è la coalizione. Alla fine, vince chi prende più voti non come lista singola, ma come alleanza. È lo stare insieme che permette di prendere un voto in più nei collegi o di conquistare il premio di maggioranza. I partiti singoli, per quanto siano riusciti talvolta ad ottenere alte percentuali, difficilmente riescono ad essere competitivi per conquistare la guida del Paese.

Il meccanismo della coalizione è stato fondamentale, ad esempio, per tutte le vittorie di Silvio Berlusconi, che più di tutti ha capito come sfruttare le regole nascoste che le leggi elettorali di volta in volta hanno stabilito. E le prossime elezioni potrebbero confermare ancora una volta questa tendenza.

Ripercorriamo insieme alcune tappe elettorali che hanno segnato la nostra storia recente. Le elezioni del 1994 sono quelle che hanno visto gli italiani votare per la prima volta con la legge Mattarella. Essa era una vera e propria novità nello scenario politico perché introduceva una forte quota maggioritaria, eleggendo il 75% dei parlamentari in collegi uninominali.

Con i referendum abrogativi del 1993 gli italiani dissero basta alla politica del proporzionale, basata su accordi post-voto tra partiti al governo per decenni, in favore di un sistema che consentiva di scegliere direttamente sia il proprio parlamentare sia di favorire l’alternanza di governo.

Così, divennero fondamentali due aspetti per vincere le elezioni. Il primo: essere in grado di formare una coalizione forte, spesso grazie a una leadership riconosciuta e condivisa. Il secondo fu saper sfruttare la geografia politica del Paese. La vittoria nei collegi, infatti, dipendeva anche dalla presenza di candidati radicati in quelle zone. Perciò, scegliere alleati territorialmente forti voleva dire conquistare un bottino non indifferente di voti.

E così seppe fare magistralmente Silvio Berlusconi, che nel 1994 si inventò addirittura una doppia coalizione: il Polo delle Libertà al Nord tra Forza Italia e la Lega di Umberto Bossi; il Polo del Buon Governo tra Forza Italia e la nuova AN di Gianfranco Fini al Sud. Fu una scelta geniale e decisiva, che consegnò il paese al centrodestra, che ribaltò i pronostici della vigilia favorevoli alla “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto.

Non a caso, la rottura con la Lega Nord, e la sua conseguente corsa solitaria nel 1996, frenò Berlusconi dal vincere anche le elezioni successive. Per questo motivo, nel 2001 la coalizione di centrodestra si ripropose unita agli italiani ottenendo una vittoria a valanga: colonizzato il nord e il centro-sud (con il famoso 61 a 0 in Sicilia), al centrosinistra rimasero solo le zone dov’era tradizionalmente forte, ossia la cosiddetta zona rossa.

Il centrodestra andò talmente bene che non riuscì ad eleggere tutti i candidati che aveva nelle proprie liste e così il numero dei componenti del Parlamento rimase inferiore a quello previsto dalla Costituzione. Come si arrivò a tale risultato? Quell’anno entrambe le coalizioni – e specialmente il centrodestra – fecero un larghissimo uso delle liste civetta. Questo espediente serviva per aggirare lo scorporo, il complesso sistema previsto dal Mattarellum per attenuare gli effetti maggioritari dei collegi uninominali. Collegando i candidati dell’uninominale a queste liste civetta, i partiti “veri” si vedevano assegnare più seggi nella parte proporzionale.

Nel 2001 il centrodestra andò così bene nel proporzionale che non riuscì ad eleggere tutti i parlamentari che avrebbe dovuto, perché tutti i candidati nelle sue liste erano già stati eletti. Aver abusato di tale metodo, quindi, si ritorse contro l’ex Cavaliere.

Fu proprio il centrodestra a cambiare il Mattarellum, reintroducendo nel 2005 il proporzionale (stavolta corretto da un premio di maggioranza) con il Porcellum. Questa legge sembrava fatta apposta per consentire di “marciare divisi per colpire uniti”: via i collegi uninominali (dove nel 2001 il centrodestra aveva “perso” milioni di voti rispetto al proporzionale), restavano solo i simboli delle liste di partito collegati tra di loro in coalizioni. Le nuove soglie di sbarramentovariabili” (più alte per le liste non coalizzate, “scontate” per quelle coalizzate) da un lato incentivavano la formazione di coalizioni le più ampie possibili – e quindi la frammentazione – dall’altro incentivavano la moltiplicazione delle liste civetta, stavolta utili a portare acqua al totale delle coalizioni pur rimanendo al di sotto della percentuale minima richiesta, sia pur “scontata”, per prendere seggi.

E infatti, nel 2006 il centrodestra schierò ben 12 liste, e il centrosinistra addirittura 13. Fu proprio quest’ultima coalizione a prevalere, sia pur di pochissimo (25.ooo voti alla Camera) e ritrovandosi con una maggioranza composta di ben nove partiti. In quell’occasione il centrodestra commise nuovamente un grave errore, schierando liste separate nelle circoscrizioni estere, che erano state introdotte per la prima volta proprio dal Porcellum. Schierando invece una lista unica, l’Unione di centrosinistra vinse ben 4 seggi su 6 al Senato, grazie ai quali ebbe la maggioranza – sia pur risicatissima – a Palazzo Madama.

La grande instabilità del panorama politico post elezioni 2006 non durò a lungo. E nel 2008, Berlusconi si prese la sua rivincita: largamente in vantaggio nei sondaggi sul centrosinistra al governo (frammentato e litigioso), imitò l’idea del neonato Partito Democratico di Walter Veltroni, per non lasciare all’inseguitore la bandiera della semplificazione: creò insieme a Fini una lista unica, il Popolo delle Libertà, che ottenne da sola oltre il 37% dei voti e l’anno successivo si trasformò in un vero e proprio partito. Alleato ad una Lega Nord tornata su valori paragonabili a quelli degli anni ’90, il PDL stravinse le elezioni 2008.

I meccanismi del Porcellum – liste bloccate, pluricandidature illimitate – furono sfruttati pienamente dal centrodestra, molto più che dai suoi avversari. Nel 2008, ad esempio, Berlusconi e Fini si candidarono nelle posizioni di capolista in tutte le circoscrizioni della Camera, mentre ad esempio Veltroni – per mostrare la contrarietà del PD al sistema di pluricandidature illimitate – scelse di candidarsi “solo” in tre circoscrizioni. Uno schema simile si è ripetuto più volte in occasione delle elezioni europee (ad esempio nel 2004 e 2009), dove lo stesso Berlusconi, pur ricoprendo all’epoca la posizione di Presidente del Consiglio, non esitò a candidarsi in tutte le circoscrizioni, consapevole di costituire un valore aggiunto per i suoi elettori se avesse dato loro l’opportunità di scrivere il suo nome sulla scheda. Anche qui, il centrosinistra e il PD hanno invece fatto una scelta diversa, limitando le candidature dei propri leader al Parlamento europeo in una singola circoscrizione, talvolta scegliendo i propri capolista in modo simbolico (ad esempio, solo donne nel 2014).

Proprio quando si riteneva conclusa la parentesi berlusconiana in Italia, il 2013 sconfessò ogni previsione. Berlusconi, stavolta in svantaggio, si presentò ancora una volta con una larga coalizione (nove partiti, contro i tre/quattro del centrosinistra) e non vinse il premio di maggioranza alla Camera per un misero 0,5% dei voti. Il centrosinistra con Bersani vinse il premio di maggioranza alla Camera. Ma Berlusconi si candidò, per la prima volta nella sua carriera politica, al Senato, prevedendo – come poi avvenne – che lì gli equilibri sarebbero stati meno favorevoli ai suoi avversari. Purtroppo, nemmeno lui riuscì a prevedere che la rottura del bipolarismo passò soprattutto attraverso l’exploit del Movimento 5 Stelle: il centrodestra fu ancora una volta decisivo per la formazione di una maggioranza di governo, ma non poté evitare che in Senato fosse composto, in maggioranza, da parlamentari ostili a Berlusconi, che nel momento più delicato – il voto sulla sua decadenza, imposta dalla legge Severino – riuscirono ad estrometterlo dal Parlamento, dopo 20 anni di permanenza ininterrotta.

E oggi, qual è lo scenario? Ancora una volta, la nuova legge elettorale, il Rosatellum, favorisce le coalizioni. E lo fa perché vengono reintrodotti i collegi uninominali in cui a vincere è il candidato che prende un voto in più. Più è grande la coalizione e più vi è speranza che ci siano i consensi sufficienti a farsi eleggere. Non solo: la soglia di sbarramento è piuttosto bassa (3%) quindi laddove la leadership sia messa in discussione la corsa solitaria è un’opzione percorribile. Questa possibilità ha indebolito il centrosinistra, favorendo (o comunque non rendendo troppo sconveniente) la corsa solitaria di Liberi e Uguali, in aperto contrasto con il leader del PD Matteo Renzi. Il centrodestra, invece, si è ritrovato nuovamente con un sistema che incentiva – e premia – la strategia del “marciare divisi per colpire uniti”: si pensi alla norma che impone alle singole liste (e non più alle coalizioni, come nel Porcellum) di indicare un “capo politico” e di depositare un proprio programma, entrambi potenzialmente differenti da quelli delle liste alleate.

Altri vantaggi si possono rinvenire nel meccanismo pensato per i partiti apparentati: ossia quelle norme che permettono che i voti alle liste tra l’1 e il 3% vengano “donate” alla coalizione e ripartiti tra i partiti che la soglia riescono a superarla.

Così, è possibile che nel centrosinistra venga a crearsi un ulteriore smottamento: con la lista +Europa che, come abbiamo visto, potrebbe prendere più del 3% mentre le liste Insieme e Civica Popolare potrebbero restare sotto l’1%. In questo caso, il Pd non riuscirebbe ad attrarre a sé alcun voto rischiando di perdere tra i 12 e i 19 seggi alla Camera, rispetto agli scenari ipotizzati in fase di approvazione dela legge.

Al contrario, il centrodestra può avvantaggiarsi anche di questa opzione. Se infatti non potrà contare su una maggioranza autosufficiente, si apriranno le porte ad un governo di larghe intese dove si potrà fare a meno di considerare il peso parlamentare delle truppe berlusconiane.

 

E allora, a fare la differenza – come fatto notare peraltro anche da un articolo dell’Economist – potrebbe essere un altro alleato, ancora una volta sapientemente costruito e protetto dall’ex Cavaliere. Si tratta dei centristi di Noi con l’Italia. Questo piccolo partito, che ricade tra quelli in lizza per superare la soglia di sbarramento, sarà essenziale per Berlusconi, in due modi.

Il primo: portando acqua ai candidati del centrodestra nei collegi uninominali. Dove? Al sud, dove la partita è apertissima. Il capo politico di Noi con l’Italia, infatti, è il pugliese Raffaele Fitto (ex Forza Italia) e la base elettorale del partito è situata perlopiù nel meridione. E del resto l’apporto di una lista del genere non serviva certo nei collegi del Nord dove, grazie anche all’appoggio leghista, il centrodestra è già molto competitivo. È quindi nelle sfide al sud contro il Movimento 5 Stelle che l’alleato centrista potrà essere la risorsa in più del centrodestra per vincere la partita dei collegi.

Secondo modo: ottenendo più del 3%. Infatti se la lista restasse sotto il 3% i suoi voti verrebbero sì in parte regalati a Forza Italia, ma in parte anche a Lega e Fratelli d’Italia, che un governo di larghe intese non sembra proprio abbiano intenzione di volerlo formare. Così, se Noi con l’Italia superasse il 3% da una parte non regalerebbe seggi agli amici-nemici alleati, dall’altra consegnerebbe al prossimo Parlamento la possibilità concreta di far nascere un governo Tajani con i voti del Pd o anche un Gentiloni bis che dovrebbe ascoltare maggiormente le richieste del leader forzista. Questo, ovviamente, solo se ci saranno i numeri.

A questo proposito, vanno tenute d’occhio le circoscrizioni estero. Stavolta infatti i ruoli si sono invertiti rispetto al 2006: il centrodestra corre con un’unica lista (un simbolo tricolore con i nomi Berlusconi-Salvini-Meloni) mentre è il centrosinistra a presentare separate le tre liste PD, +Europa e Civica Popolare. Con quali effetti, lo vedremo il 4 marzo.

Anche per questa ragione, domenica sera sarà vi saranno molti elementi da tenere d’occhio: se +Europa e Noi con l’Italia riusciranno a superare lo sbarramento; se all’estero il voto sarà nuovamente decisivo come nel 2006. E, alla fine, capire se anche questa volta la strategia berlusconiana è stata lungimirante. Perché, con tutta probabilità, continua a esser presto per dichiarare chiusa la stagione politica del berlusconismo.

Andrea Maccagno

Laureato con lode in Governo e politiche alla LUISS, dove ha collaborato con il CISE, si interessa principalmente di sistemi elettorali e sistemi partitici.
Grande sostenitore dei diritti civili, è stato presidente di un'associazione LGBT

Commenta

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.