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Gentiloni sì, Gentiloni no

Matteo Renzi, preoccupato – come tutta la classe politica italiana – dalla prospettiva del voto a luglio, ieri sera ha lanciato la candidatura di Paolo Gentiloni alla premiership.

Governo o no, cambia poco: la crisi e il voto anticipato saranno sempre dietro l’angolo in questa legislatura, e questa proposta di incoronazione da parte del “senatore di Scandicci” muta le prospettive del centrosinistra.

Il motivo della proposta di Renzi è presto detto. Basta guardare i dati dell’ultimo osservatorio Demos & Pi pubblicato su La Repubblica: il leader politico meno apprezzato dagli italiani è proprio Matteo Renzi, che non arriva al 25%; il leader con il gradimento più alto è invece Paolo Gentiloni, con il 52%, incalzato da Matteo Salvini che dopo una crescita enorme negli ultimi anni oggi raggiunge il 50%.

Ma davvero Gentiloni riuscirebbe a trasformare una parte importante del proprio consenso personale in voti al Partito Democratico?

È molto difficile. In poco tempo, impossibile.

Sicuramente il PD in quest’epoca di partiti personali ha pagato il crollo di fiducia del proprio leader e riuscirebbe, con Gentiloni, a richiamare al voto alcuni segmenti elettorali che, scontenti di Renzi, hanno disertato le urne o disperso il voto. Ma se una scarsa fiducia verso il leader spesso corrisponde a pochi voti per il partito, non altrettanto spesso si verifica il contrario: un alto gradimento del leader di norma non porta a risultati importanti per la sua lista.

Un caso eclatante è quello di Emma Bonino, per molti anni tra i politici più amati del Paese, esponente di rilievo di formazioni politiche (i Radicali, la Lista Bonino, e più di recente +Europa) che elettoralmente non hanno mai sfondato. Non per nulla nell’ultima campagna elettorale la Bonino ha dichiarato che nella sua vita le sarebbe piaciuto essere “amata di meno, votata di più”. Ma anche Walter Veltroni e Fausto Bertinotti non riuscirono a trasferire il proprio consenso, elevato e trasversale, ai partiti che guidavano.

Oggi, dopo aver ottenuto un risultato tragico, un PD a guida Gentiloni potrebbe certamente risalire: gli elettori di centrosinistra, ad esempio nel Lazio, hanno mostrato che con una leadership meno divisiva, come quella di Nicola Zingaretti, sono disponibili a “tornare a casa”. Ma pensare che in questa situazione basti un cambio di guida al volo per risollevare le sorti della sinistra italiana sarebbe sbagliato. E pericoloso per Gentiloni, che con esperienza e saggezza ha rassicurato l’elettorato ed è stato in questi anni un argine alla ribellione anti-politica dei cittadini: da leader “di parte”, con una campagna breve e tutta di rincorsa, rischierebbe di perdere smalto e apprezzamenti.

Il PD è in difficoltà a livello politico, di leadership, e soprattutto di brand. Il segretario reggente, Maurizio Martina, viene costantemente smentito dall’ex segretario che, pur senza nessun ruolo ufficiale, continua a dare una linea e a risultare divisivo; il partito è sempre meno identificabile e riconoscibile sui temi, ancorato ai fasti di un periodo ormai superato, e oggi ha perso credibilità sia al centro che a sinistra.

Le colpe di Renzi? Molte, così come molti furono i suoi meriti nel trionfo delle europee.

Ma oggi, per tornare il primo partito italiano, non basta sostituire Renzi con un volto apprezzato come quello di Gentiloni.

Viceversa, per l’attuale premier forse possono bastare poche scelte infelici per compromettere un dato di consenso elevato.

Giovanni Diamanti

Classe 1989, consulente e stratega politico. Co-fondatore e amministratore di Quorum, ha lavorato ad alcune tra le più importanti campagne italiane, tra cui quelle di Debora Serracchiani, Dario Nardella, Nicola Zingaretti, Vincenzo De Luca, Pierfrancesco Majorino, Beppe Sala. In realtà è un ragazzo timido che ama guardarsi la punta delle scarpe. Uomo dalla testa veloce, ha idee (confuse) in ordine sparso - così come i capelli.

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