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Impeachment, alto tradimento, stato d’accusa: cosa sono?

L’apertura della crisi istituzionale e, in modo particolare, il ruolo svolto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella hanno portato alcune forze politiche a ipotizzare il cd “impeachment”. Non a caso, l’hashtag #impeachment è diventato virale e trend topic sui social.

Ma di cosa si tratta? Il Presidente della Repubblica in Italia può essere messo sotto accusa dal Parlamento?

Prima di tutto, va precisato che il termine “impeachment” indica un istituto giuridico tipico del sistema anglo-sassone di common law, che trova le sue origine nella storia medievale inglese ed è stato poi codificato nell’ordinamento giuridico statunitense.

Negli USA, infatti, la cosiddetta procedura di impeachment è disciplinata all’art. 2 della Costituzione, ed è prevista per i giudici e per i componenti dell’esecutivo accusati di aver agito illecitamente nell’esercizio delle loro funzioni.

L’estensione del termine al di fuori dalla realtà politica americana, pertanto, è tecnicamente impropria. La tradizione giuridica continentale storicamente ha sempre considerato il sovrano (cioè il detentore del potere) come “legibus solutus”, cioè al di sopra della legge.

Il principio di responsabilità giuridica del Presidente della Repubblica (presente anche nella Costituzione italiana) in questo senso rappresenta un corollario fondamentale del moderno Stato di diritto. Si è, infatti, passati dalla assoluta intangibilità del sovrano alla parziale sindacabilità di alcuni atti del Capo dello Stato – e persino alla possibilità di una sua incriminazione.

Partiamo, quindi, dal dettato della nostra Carta. Nel nostro ordinamento la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica è disciplinata dall’articolo 90 della Costituzione, il quale dispone che

Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri

L’ammissibilità della messa in stato d’accusa del Capo dello Stato è, quindi, una prerogativa esclusiva del Parlamento, mentre la decisione definitiva spetta alla Corte costituzionale in una composizione “allargata”.

Il primo comma dell’art. 90 sancisce la totale immunità del Presidente della Repubblica per i cosiddetti atti funzionali, con due significative eccezioni: alto tradimento e attentato alla Costituzione. Sin da subito la dottrina si è interrogata sulla natura di tali istituti, noti come “reati presidenziali”.

Come sottolineato in un recentissimo commentario alla Costituzione: [1]

Si ritiene generalmente che l’attentato alla Costituzione configuri un comportamento doloso volto a sovvertire le istituzioni costituzionali (ad esempio colpo di Stato) o a violare gravemente la Costituzione, mentre l’alto tradimento attenga alla dimensione internazionale dello Stato, riguardando un comportamento del Presidente, anch’esso doloso, volto a danneggiare l’integrità dello Stato

Quando si parla di messa in stato d’accusa bisogna quindi muoversi all’interno di questa (indefinita) cornice. Ma come funziona a livello procedurale? Come detto, la competenza ad avviare il relativo procedimento è del Parlamento.

Più nello specifico, “i rapporti, i referti e le denunzie” devono essere presentati al Presidente della Camera dei Deputati (legge n. 219/1989) che a sua volta li trasmette al Comitato Parlamentare per i procedimenti d’accusa (legge costituzionale n. 1 del 1953).

Il Comitato, composto dai componenti della Giunta del Senato e da quelli della Camera competenti per le autorizzazioni a procedere (come da legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1), gode di vere e proprie attribuzioni di indagine al pari di un qualsiasi organo inquirente e deve svolgere la propria attività nell’arco di cinque mesi, prorogabili una sola volta per ulteriori tre mesi.

Al termine dell’attività di indagine il Comitato deve stilare una relazione con tre possibili esiti: dichiarazione di incompetenza, laddove le accuse mosse al Presidente non configurino uno dei reati di cui all’art. 90 Cost.; archiviazione, qualora si dovessero ritenere del tutto infondate le accuse mosse avverso il Presidente; una proposta di messa in stato di accusa, con la puntuale indicazione delle accuse stesse, delle ragioni in fatto e in diritto su cui si fondano e dei relativi elementi probatori a supporto.

Nella terza e ultima ipotesi la palla passa, poi, al Parlamento riunito in seduta comune che deve deliberare a maggioranza assoluta dei suoi membri. Qualora anche tale scoglio dovesse essere superato, gli atti vengono trasferiti alla Corte Costituzionale la quale, come detto, è chiamata a giudicare in una composizione allargata: ai 15 giudici si vanno ad aggiungere 16 cittadini che abbiano compiuto almeno 40 anni di età ed i cui nomi sono estratti a sorte da una lista compilata dal Parlamento ogni 9 anni (art. 135, comma 7 Cost.). Le funzioni dell’accusa vengono svolte da un gruppo di “commissari d’accusa” (legge costituzionale n. 1/1953). In caso di condanna, il Presidente viene destituito dal suo incarico.

Come si vede, si tratta di un procedimento lungo e complesso, che si articola su varie fasi. Per mettere in stato d’accusa il Presidente ed eventualmente rimuoverlo dal suo incarico non può certo bastare la maggioranza dei membri del Parlamento: questa è una condizione necessaria – altrimenti non si potrebbe nemmeno deliberare la messa in stato d’accusa – ma non sufficiente. Anche per questo motivo si tratta di una procedura che non è mai stata applicata.

Nella storia repubblicana, infatti, non vi sono precedenti di messa in stato di accusa. In tre casi, però, ci si è avvicinati all’avvio del procedimento: per il Presidente Giovanni Leone, che nel 1976 fu accusato di un presunto coinvolgimento nello scandalo Lockheed e che si dimise, due anni dopo, sei mesi prima della scadenza naturale del mandato (senza che fosse stata avviata la procedura); e per Francesco Cossiga, dapprima nel 1991 in relazione alla vicenda Gladio e poi nel 1992 con l’accusa di aver “snaturato il ruolo della Presidenza della Repubblica”. Nel primo caso il procedimento partì ma fu archiviato, mentre nel secondo il Presidente, ormai prossimo alla conclusione del suo settennato, optò per le dimissioni.

 


[1] Cfr. Francesco Clementi e altri, “La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo”, il Mulino 2018, pagg. 195 e ss.

Francesco Magni

Nato a Roma nel 1988, dopo la laurea in giurisprudenza ha esercitato per tre anni la professione di avvocato. Oggi è funzionario del Ministero dell'Interno. Mantiene vivi la passione e l'interesse per le questioni politiche ed elettorali che cerca sempre di analizzare, ove possibile, alla luce della sua formazione giuridica.

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