Nel 2019 non scopriremo solo chi siederà sul Trono di Spade grazie all’uscita dell’ultima stagione di una nota serie TV. Si giocherà anche una partita decisiva per il futuro dell’Europa in cui si decideranno gli occupanti degli scranni più alti del continente: Presidenza della Commissione Europea e del Consiglio Europeo a Bruxelles, e Presidenza della BCE a Francoforte. Il tutto con le elezioni del Parlamento Europeo previste per l’ultimo weekend di maggio. Dalle bollenti acque estive del Mediterraneo alla fine del quantitative easing (dicembre), passando per l’esito definitivo della Brexit (marzo), è un traversata in preda ai venti sovranisti. E, con la Merkel in piena crisi politica e Macron privato della sua “controparte” tedesca, chi terrà saldo il timone?
Non solo troni, ci si gioca molto di più
L’agenda legislativa europea da qui a fine legislatura è molto densa e avrà pesanti conseguenze per gli anni futuri. Si discutono, fra gli altri, il quadro finanziario pluriennale post 2020 che porterà con sé la nuova politica di coesione e la nuova politica agricola comune (PAC). È prevista, inoltre, l’integrazione del Fiscal Compact, con i suoi famigerati vincoli di bilancio, nei trattati istitutivi del diritto comunitario, assieme a una ridefinizione del Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM, quello dei famosi piani d’aiuto finanziari a Portogallo e Grecia).
Ma la questione politicamente più scottante, che ha monopolizzato quasi del tutto il Consiglio Europeo del 28 e 29 Giugno, è la politica migratoria comune. All’alba di venerdì è stato trovato un accordo, che ha lasciato invariato il regolamento di Dublino e non ha previsto misure vincolanti. Chi aveva più fretta di trovare una soluzione era la Cancelliera tedesca che, spinta o minacciata dai suoi alleati bavaresi della CSU (il cui leader Seehofer minaccia le dimissioni dal governo), teme per la stabilità del suo esecutivo. E, con l’arrembante Italia nella sua inedita tenuta giallo-verde la Cancelliera non ha avuto una vita facile. Questo malcontento interno sembra un paradosso considerando che il flusso migratorio in Germania è in diminuzione, ma la Merkel paga la politica di accoglienza degli ultimi anni. Resta da capire come verrà accolto il nuovo accordo e se basterà a calmare le acque a Berlino.
La battaglia esistenziale: l’Europa del futuro
L’ultima decade dell’integrazione europea è una perenne politica di crisis management: ieri la crisi dell’eurozona, oggi la crisi migratoria. Una toppa qui, una toppa là: a situazioni di emergenza si risponde con misure di emergenza, spesso frettolose e temporanee, cucendo una tela destinata a cedere nel lungo periodo. Oggi, quasi dieci anni dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, a un anno dalle elezioni europee e con le crescenti pulsioni sovraniste, c’è un disperato bisogno di ridare senso al progetto europeo. E qualcuno è pronto a giocare la parte del salvatore. Almeno tre diverse prospettive per il futuro del continente si palesano oggi, incarnate da altrettante personalità di spicco.
Macron e la sindrome di Napoleone
Con la marcia attraverso la spianata del Louvre sulle note dell’inno alla gioia, l’ambizione di Macron di costruire un’Europa forte fu chiara fin da subito. Un progetto verso un progressivo federalismo europeo che passa da una difesa comune, un budget per l’eurozona a un ministro delle finanze europeo. Un progetto che spera di trovare il favore dei paesi del sud Europa, ma che deve fare i conti con la realtà: la chiave di volta, come sempre è stata nei 60 anni d’integrazione, risiede nella coppia franco-tedesca. Ma stavolta bisognerà andare anche oltre. 12 paesi, fra cui i Paesi Bassi, con una lettera comune si sono stagliati contro la proposta del budget per l’Eurozona, assicurando un nulla di fatto, o quasi, nel dibattito sul futuro dell’area Euro al Consiglio Europeo.
Ma se è vero che la Merkel, seppur timidamente appoggerebbe certe istanze per il bene dell’Europa come dichiarato nel meeting bilaterale del 19 Giugno, è però frenata dall’estenuante politica interna tedesca. Come potrebbe convincere i suoi alleati di governo più conservatori e i contribuenti tedeschi che è necessario mettere a disposizione più risorse pubbliche (tedesche) per aiutare gli indebitati paesi mediterranei a risollevarsi?
La campagna di Macron passerà anche per il Parlamento Europeo, dove il Presidente francese aspira a fondare una En Marche continentale capace di rivoluzionare, o almeno di disorientare, l’attuale configurazione politica di Strasburgo. Nei corridoi di Bruxelles si rincorrono voci di possibili alleanze con il Partito Democratico italiano e con gli spagnoli di Ciudadanos.
Macron è forse l’uomo giusto nel momento storico sbagliato. Ha un piano, ma non ha la forza di attuarlo ed è alla disperata ricerca di alleati. Ma non siamo naïf: dietro un sincero europeismo si nascondono sempre gli interessi del proprio paese. Da Bardonecchia a Fincantieri, sempre vive la France. I tentativi egemonici francesi hanno sempre fallito. Vedremo questa volta.
Mark Rutte e l’Europa della giraffa
Quando Giulio Cesare portò per la prima volta una giraffa a Roma, nessuno sapeva come chiamarla. Qualcuno propose cammellopardo, al lettore indovinare il perché. L’Unione Europea è come una giraffa per gli antichi romani: difficile da descrivere ma facile da riconoscere. Con questa metafora il Primo Ministro olandese Mark Rutte ha tentato di cogliere l’essenza dell’UE di fronte al Parlamento Europeo di Strasburgo: una realtà eterogenea e nebulosa, ma unita da comuni valori.
Principale indiziato a sostituire Donald Tusk alla Presidenza del Consiglio Europeo, il liberale Mark Rutte vuole disegnare un’Europa secondo i gusti olandesi: prudenza fiscale, libero mercato e scarsa o nulla mutualizzazione del rischio. Che, in termini concreti, significa: mantenimento dei vincoli di bilancio, eliminazione delle ultime barriere al mercato unico e riduzione del budget europeo (quindi meno risorse per la politica di coesione e per la PAC).
Una visione che ricalca e rimpiazza il genetico euroscetticismo britannico e che riecheggia con favore sulle sponde dei paesi del Baltico: Scandinavia e repubbliche baltiche. Una voce in netto contrasto con quella più federalista di Macron.
Varoufakis contro TINA
Sono passati 4 anni da quando Yanis Varoufakis sedeva con “gli adulti nella stanza” dell’establishment europeo. Lanciando la piattaforma transnazionale DIEM25, l’ex ministro delle finanze greco intende rilanciare la sua lotta contro TINA (il dogma “There Is No Alternative” che ha legittimato le politiche di austerità). Prossima tappa: le elezioni europee. Il piano è “semplice”: riunire la sinistra europea e rivoluzionare l’Unione.
La proposta, ancora in fase di elaborazione e che verrà votata dagli iscritti entro la fine dell’anno, è molto più radicale delle due precedenti. Si tratta, in bozza, di un vero e proprio programma politico volto a ridefinire profondamente l’Unione: mutualizzazione del debito, basic income (reddito di base) europeo, transizione ecologica, democratizzazione dell’innovazione tecnologica e perfino costituzione paneuropea. In confronto, Macron è solo un timido federalista. Il tour europeo di Varoufakis è incominciato e vedremo dove condurrà.
Ma non manca qualcuno?
È attorno a queste tre prospettive che prenderà forma la prossima campagna elettorale europea che dovrebbe strutturarsi attraverso il processo dello spitzenkandidaten. Già sperimentato nel 2014, il sistema prevede che ogni lista transnazionale proponga un candidato per la Presidenza della Commissione. Il Consiglio Europeo, nella nomina dell’inquilino del Berlaymont, deve tenere conto dei risultati delle elezioni e dar quindi precedenza al candidato della lista più votata (come successe con Juncker 4 anni fa).
Secondo l’Eurobarometro, circa il 49% degli intervistati è favorevole questo sistema. Con un’ampia maggioranza, il Parlamento Europeo ha già espresso un parere favorevole. Più timidi i Capi di Stato e di Governo, fra cui Macron, che, pur non opponendosi del tutto, nel summit di Bruxelles del 23 Febbraio hanno fatto intendere di non voler attribuire nessuna automaticità allo spitzenkandidaten riservandosi l’arbitrarietà nella scelta finale. Forse il motivo di tale scelta è piuttosto semplice: dietro alle tre prospettive che abbiamo stilato se ne profila una quarta dai contorni e dai nomi ancora incerti.
È quella che auspica Steve Bannon e che chiama “internazionale populista” o “internazionale sovranista”, (in un certo senso, un ossimoro di per sé). Quella che oggi governa in Italia, in Austria e quasi compattamente nei paesi del cosiddetto blocco di Visegrad. Sono quei governi che fanno risuonare, o che sfruttano, le “paure della gente” legate all’integrazione europea e all’apertura delle frontiere. Secondo l’Eurobarometro 2018, nonostante una lieve flessione rispetto allo scorso anno, l’immigrazione è ritenuta ancora, dai cittadini europei, il principale problema dell’Unione, seguita dal terrorismo.
L’Europa in tinta sovranista è come il cigno nero di Taleb, quegli eventi così remoti e dirompenti da essere considerati irrealizzabili. Ma, con la Brexit, l’elezione di Trump e il nuovo governo italiano, il cigno ha smentito la sua natura. Come diceva Matteucci, il populismo prospera dove le élite si chiudono, dove c’è insufficienza di riforme. Non sarà che l’establishment europeo si oppone all’automaticità dello spitzenkandidaten per difendere lo status quo, per timore di trovarsi un inquilino sovranista nella Commissione Europea? Il cigno nero è sempre più bianco.
Grazie per renderci più comprensibili i complessi meccanismi di Bruxelles