Da qualche settimana è uscito l’annuale rapporto dell’IFEL – fondazione dell’ANCI che si occupa di finanza locale – che va a fotografare la situazione dei comuni italiani sotto diversi punti di vista, in particolare quelli legati a istituzioni, finanza, economia, territorio e società.
Il rapporto è ricco di statistiche e numeri. Balza subito all’occhio il dato riguardante l’età dei primi cittadini: i sindaci under 35, in Italia, sono soltanto 440 in tutto (dati IFEL gennaio 2018), circa il 5% del totale. Ancora più sorprendente è forse il dato relativo alle donne sindaco. Su un totale di quasi 8.000 comuni, solo il 14% hanno un sindaco donna. I due dati riflettono un elemento ricorrente nella società italiana: la difficoltà, per i giovani, di emergere e ricoprire incarichi nonostante le competenze (spesso elevate) e l’altro, ugualmente preoccupante, legato alle scarse possibilità per le donne di fare politica in ruoli di responsabilità. Le norme sulle pari opportunità – che hanno introdotto le quote di genere e la doppia preferenza – non offrono infatti strumenti per assicurare una maggiore presenza femminile per gli organi monocratici, come nel caso di un sindaco. Bisogna segnalare però come vi siano ampie differenze territoriali, con due Regioni che conquistano per entrambi gli aspetti la prima e l’ultima posizione: se le “sindache” sono il 20,4% in Emilia-Romagna e i primi cittadini giovani sono il 9,8%, in Campania si fermano rispettivamente al 5,3% e 2,5%.
Continuando a scorrere il rapporto si può vedere, tramite un’istantanea, l’assetto amministrativo del nostro Paese: in larghissima parte (circa il 70% del totale) composto da piccoli comuni, cioè da enti con meno di 5.000 abitanti.
Partendo da queste statistiche, è chiaro che la questione infrastrutturale all’interno del Paese assume un ruolo fondamentale nell’arginare lo spopolamento delle aree interne e quelle montane, che riguardano in totale circa il 45% dei comuni: uno sviluppo delle reti viarie, ferroviarie, aeroportuali e autostradali infatti può causare lo sviluppo e il “risorgimento” di aree che man mano si stanno spopolando (un aspetto emerso in maniera emblematica con il caso dell’ultimo terremoto Marche-Umbria).
Se però continuiamo a leggere il rapporto, capiamo che i Comuni hanno una capacità e un dinamismo che permette loro di rispondere adeguatamente alle sfide che la società moderna pone: a fronte di una maggiore autonomia di spesa, meno rigidità di bilancio e linee di investimento o incentivi dedicate, infatti, circa 3 comuni su 10 si sono dotati di impianti fotovoltaici che permettono di migliorare l’efficienza delle proprie fonti energetiche all’interno del patrimonio immobiliare municipale. Anche qui però il dato medio nasconde forti differenze: ad Aosta, Trento e Bolzano circa la metà dei comuni detiene un impianto, percentuale che cala al 15,3 in Calabria e all’11,4 in Sardegna. Un altro elemento molto rilevante è la capacità di realizzare investimenti. Oramai il tema è affrontabile, in parecchi casi, solo con l’aiuto e la partnership di attori privati (tramite le PPP): in 15 anni, difatti, sono stati aggiudicati circa 7.000 bandi per un importo totale superiore ai 24 miliardi di euro, come si può evincere dalla tabella fornita da IFEL. Su questo fronte le disomogeneità territoriali appaiono meno marcate, con buone performance registrate anche in regioni meridionali come la Puglia e la Campania.
Questo aspetto non può che chiamare in causa una riflessione sulla spesa corrente: in primo luogo i dati IFEL ci dicono che i “comuni polvere” (cioè con meno di 1.000 abitanti) e i grandi centri con più di 250 mila residenti sono quelli con la maggiore spesa pro capite. Come si può spiegare questo dato? Da una parte nei piccoli enti non si possono manifestare economie di scala in tutte quelle attività di pura amministrazione (segreteria, ragioneria, ufficio tecnico, anagrafe…) dove vi è una forte incidenza della spesa per il personale; a ciò si aggiunga che spesso i piccoli enti sono comuni montani, ubicati in zone dove la fornitura di servizi a cittadini e imprese è di per sé meno agevole e quindi più onerosa. D’altro canto, le metropoli tendono a fornire servizi anche per residenti al di fuori del territorio comunale (pensiamo al trasporto pubblico locale, o alla manutenzione delle strade).
Sotto questo aspetto rileviamo grandi differenze fra regioni a statuto speciale, dove i comuni spendono notevolmente di più (fino ai 1.853,3 euro pro capite in spese correnti dei comuni valdostani), e regioni a statuto ordinario, dove i più parsimoniosi sono i comuni campani (599,6 euro pro capite). Naturalmente, su questi livelli di spesa incidono anche la quantità e qualità dei servizi erogati, fattori che potrebbero contribuire a spiegare la spesa media più alta al Nord che al Sud.
Un ultimo dato sul quale ragionare è quello legato ai fenomeni migratori: l’anno scorso i dati ufficiali parlano di un tasso migratorio che si aggira attorno all’1%. Ovviamente, all’interno di questo dato ci sono i migranti che sono giunti sul suolo italiano (siano essi richiedenti asilo oppure no), ma ci sono anche le decine di migliaia di italiani che hanno deciso di lasciare il Paese. La cartina sottostante mostra, comune per comune, il valore (positivo o negativo) del saldo migratorio: la direttrice Torino-Milano-Venezia e quasi tutta l’Emilia-Romagna e la Toscana vedono più arrivi che partenze, mentre il Meridione in massima parte registra un saldo negativo per i propri comuni.
Da questo rapporto emergono almeno 3 elementi sul quale è possibile riflettere per proporre un rilancio dei comuni nei prossimi anni:
- investire su una classe dirigente più giovane e competente, dal momento in cui le fortissime disomogeneità presenti sotto l’etichetta della parola “Comune” richiedono agli amministratori una capacità di progettazione dei servizi e di lettura della realtà locale molto elevata;
- lavorare sulle infrastrutture e sui servizi per le zone più disagiate geograficamente, che tendono a veder calare i residenti sia per trend naturali, sia per una non attrattività nei confronti dei flussi migratori;
- favorire l’incrocio e l’attività di impresa pubblico-privato come fonte per attrarre ulteriori risorse, specie in quelle regioni a statuto ordinario che possono essere meno “generose” con i propri enti locali tramite trasferimenti ordinari.
A monte di tutto ciò, ed è un fattore che emerge con chiarezza leggendo le disomogeneità sia fra i vari contesti regionali, sia fra i vari enti a seconda delle proprie dimensioni demografiche, vi è una forte differenziazione fra i 7.950 Comuni italiani: al momento la normativa considera, per larghissima parte, il comune di Moncenisio (30 abitanti) allo stesso modo di quello di Milano. Una caratteristica di derivazione sabauda che nel 2018 mostra tutta la sua inadeguatezza a rispondere alle sfide della modernità, e alle disuguaglianza crescenti che spesso implica.
(Ha collaborato Andrea Piazza)
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