Il 2019 sarà l’anno delle elezioni europee. I partiti europei vanno delineando i propri candidati (spitzenkandidat) per la Commissione, si cercano di stringere nuove alleanze nuove, in Italia si comincia a parlare della composizione delle liste (con Silvio Berlusconi di nuovo in campo) e persino di rivedere al rialzo l’attuale soglia di sbarramento del 4%. Tuttavia per l’Italia il prossimo anno rappresenterà una tornata elettorale particolarmente succulenta anche per quanto riguarda le amministrazioni locali. Andranno al voto infatti più di 4.000 comuni (oltre la metà del totale), fra cui ben 250 città con più di 15.000 abitanti (pari a circa un terzo del totale). In buona sostanza, nel 2019 si recherà al voto una fetta molto importante soprattutto dei piccoli centri urbani. Quali tendenze si possono mettere a fuoco in vista di questa scadenza?
Da anni ormai, dopo ogni tornata elettorale si constata il calo dell’affluenza. Questo dato si è verificato in maniera costante nelle ultimi 10 anni di elezioni comunali: si è passati dal 76,7% di affluenza al primo turno del 2009 (in felice concomitanza con le elezioni europee) al 61,2% delle comunali 2018. Parimenti, al ballottaggio l’affluenza è calata dal 61,3% di 10 anni fa al 47,6% di quest’anno.
Dai dati emergono due considerazioni. La prima è come la mobilitazione dell’elettorato sia divenuta nell’ultimo decennio un fattore imprescindibile per il candidato locale, dal momento che al primo turno depongono la propria scheda nell’urna meno di due terzi degli aventi diritto (percentuale che al ballottaggio è scesa ormai al di sotto del 50%, soprattutto dopo il 2011). Il successo di un aspirante sindaco si misura dunque sempre più sulla propria capacità di attrarre concretamente il sostegno dei propri simpatizzanti e/o di allargare la propria base a elettori discontinui nei recarsi al voto: con l’affluenza in calo, può essere sufficiente riuscire a raccogliere il consenso di circa un terzo degli aventi diritto. Questo potrebbe spiegare anche l’insuccesso di molti sindaci formalmente “popolari”, ma poco votati al momento del ballottaggio (il caso più eclatante fu probabilmente quello dell’ex sindaco forzista di Pavia Alessandro Cattaneo, con il 68% di popolarità secondo il sondaggio nazionale “Governance Poll 2013” di IPR e che nel 2014 venne sconfitto al ballottaggio fermandosi al 46,9%).
Tutto ciò in un contesto dove una fetta rilevante della popolazione tende a non interessarsi alla politica, pur partecipando in misura crescente all’associazionismo: i giovani under 25. Secondo l’annuario 2017 dell’ISTAT, il 29,5% di chi ha 18 e 19 anni e il 27,7% di chi ne ha fra 20 e 24 non si informa mai di politica (a fronte del 24,5% del totale della popolazione), mentre il 14,2% e il 13,1% presta attività gratuita per associazioni di volontariato (contro un 10,7% complessivo). Il tutto quando i sindaci under 30 sono solo l’1,3% del totale. In un contesto dove la mobilitazione diventa cruciale, queste fasce anagrafiche potranno sempre più rappresentare un bacino elettorale a cui attingere per ribaltare posizioni di svantaggio.
La seconda considerazione riguarda invece la sempre maggiore importanza che assume il secondo turno. In un contesto di affluenza bassa ed intermittente, unita a una frammentazione dell’offerta politica – ai tre poli attuali si sono aggiunte nelle ultime tornate elettorali un gran numero di liste civiche che riscuotono sempre maggior successo nelle urne – quel passaggio che fino a inizio anni Duemila era spesso scontato è divenuta la vera sfida in cui si azzerano i numeri e i due candidati sindaco si fronteggiano alla pari. Le elezioni comunali 2018, dove il PD formalmente aveva tenuto al primo turno per poi rovinare clamorosamente al secondo turno (perdendo a Pisa, Massa, Siena, Imola…) ne sono una plastica dimostrazione.
Un altro tema sul quale varrebbe la pena iniziare a interrogarsi riguarda il reale valore aggiunto dei sindaci uscenti. Se dall’inizio degli anni Novanta – a seguito dell’introduzione dell’elezione diretta del sindaco – fino ai primi anni Duemila i sindaci uscenti hanno tradizionalmente “vissuto di rendita”, questo fattore è andato affievolendosi nell’ultimo decennio. Ciò emerge dal bilancio delle elezioni amministrative dal 2009 ad oggi, ottenuto analizzando singolarmente ciascuna delle 1.554 sfide tenutesi nei comuni superiori [1].
Se nel 2009 veniva rieletto il 73% dei sindaci uscenti, questo dato si è fermato al 44% nel 2018, il dato più basso di sempre. Dividendo le dieci tornate di elezioni in due aggregazioni (una che comprende quelle fra 2009 e 2014, l’altra quelle dal 2015 al 2018) il tasso medio di riconferma per i sindaci uscenti cala dal 62% al 51%. Quindi, quella marcia in più (sia pure di entità ridotta) che i primi cittadini ricandidabili sembravano poter mettere in campo è venuta meno, sostanzialmente “normalizzando” il contributo che possono dare al proprio partito o alla propria coalizione [2]. Un dato che era già stato analizzato a livello di comuni capoluogo, ma che si può oggi estendere a tutti gli enti locali di media dimensione, ossia dove lo schema della competizione politica ricalca più fedelmente quello nazionale.
Un altro dato interessante riguarda su chi sia stato penalizzato da questo andamento. La risposta è molto chiara: il centrosinistra. Sono infatti i sindaci uscenti appartenenti o sostenuti dal PD che vedono peggiorare maggiormente nel breve periodo le proprie performance, a fronte di un miglioramento dell’efficacia dei candidati di centrodestra. Questo dato rappresenta un problema per il partito attualmente guidato da Maurizio Martina, dal momento che nel 2019 dovrà difendere numerosissimi comuni conquistati da neo-sindaci nel 2014, particolarmente nelle regioni (ex) rosse.
Se fra 2009 e 2014 infatti erano riconfermati a livello nazionale il 72% dei sindaci PD, ad oggi tale percentuale è scesa al 50%, un crollo di oltre 20 punti; mentre il tasso di riconferma dei candidati sostenuti dalla Lega e/o Forza Italia sale dal 54% al 60%. Sostanzialmente invariata risulta invece la (scarsa) performance dei sindaci uscenti appartenenti ad altri schieramenti (liste civiche, destra e sinistra radicale, Movimento 5 Stelle), che però rappresentano solo il 15% del totale di chi ha cercato la rielezione.
Complessivamente emerge dunque uno scenario in cui gli enti locali si trovano ad essere sempre meno “scontati” per un determinato partito e sempre più contendibili. Sulle possibili spiegazioni, oltre ai fattori endogeni al sistema partitico che si ricordavano in precedenza, si potrebbe aggiungere il calo della fiducia nell’istituzione del comune (dal 43% del 2002 al 33% del 2017, secondo le rilevazioni di Demos & Pi [3]); l’aumento e la diversificazione dei bisogni dei cittadini a fronte di sempre minori capacità di spesa e di indebitamento da parte degli enti locali; la possibile diminuzione della capacità amministrativa conseguente all’invecchiamento del personale dipendente (dal 2011 al 2016 l’età media dei dipendenti comunali è salita da 45 a 53 anni). È quindi possibile che queste criticità tendano a riversarsi sulla figura del sindaco uscente, diminuendone l’attrattività elettorale.
NOTE
[1] Per la sola Sicilia si sono considerati i comuni con più di 10.000 abitanti, a causa del differente ordinamento elettorale. [2] Nell’86,2% dei casi (550 su 638) i sindaci uscenti appartenevano o al centrosinistra o al centrodestra, i due poli principalinel periodo considerato (2009-2018). [3] Pur rimanendo il livello di governo in cui i cittadini ripongono maggiore fiducia: il 33% ha “molta o moltissima” fiducia nell’Unione europea, il 29% nella propria Regione e il 19% nello Stato.
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